L’ANALISI GIURIDICA
di Avv. Irene Pastore
In attesa delle motivazioni della sentenza di Appello relativa alla vicenda “Mafia Capitale” , a seguito della quale l’associazione capitolina ad oggi può a ragion veduta essere così chiamata non più solo per prassi comunicativa, alcune considerazioni generali potrebbero meglio spiegare l’espressa posizione assunta invece in primo grado secondo cui occorrerebbe parlare di un comune sodalizio criminale.
Da tempo dottrina e giurisprudenza si sono dovute confrontare con un dato di realtà incontrovertibile: la presenza di nuove associazioni criminali non identificabili nelle mafie comunemente ritenute storiche, sia per modalità operative che per territorio di riferimento, ma pur sempre aggregazioni criminose proattive dal nuovo sentore mafioso.
L’associazione di stampo mafioso rispetto alla forma associativa semplice ha un quid pluris: la forza intimidatrice del vincolo finalizzata alla realizzazione di propositi delittuosi e/o anche leciti che promana già solo dal sodalizio stesso senza la necessaria esternazione di condotte minacciose e violente; nonché le conseguenti condizioni di assoggettamento (coartazione psicologica) e omertà (interna ed esterna) che ne derivano.
Sin dalla prima decade degli anni ’80 appariva chiaro come lo schema normativo di cui all’art. 416bis c.p. non escludesse compagini di ridotte dimensioni anche alla luce del territorio di riferimento, come altresì sodalizi neofiti e non riconducibili a organizzazioni ‘storiche’ ma che indubbiamente accedono al modello mafioso (non a caso si parla di ‘tipo’/’stampo’) per le metodologie adoperate.
Anche in considerazione di quelle che nell’attuale contesto geopolitico sono definibili come mafie etniche, ritenere oggi impossibile l’affermazione di nuove componenti associative delittuose di marca tipicamente mafiosa sebbene non propriamente dipendenti e derivanti da quelle storicamente note e soprattutto in contesti territoriali comunemente reputati esenti da tale matrice, a parere di chi scrive significherebbe dimenticarsi da dove tutto ha preso avvio. Fino a qualche anno fa la mafia era invenzione di pochi.
Nella vicenda capitolina che vede fra i principali protagonisti noti esponenti criminali, quali Buzzi e Carminati, questo discorso si mostra con maggior evidenza se si tiene conto del fatto che la sentenza di primo grado disconosceva la mafiosità del sodalizio e, conseguentemente, delle modalità utilizzate in termini aggravatori propugnata dalla magistratura requirente in evidente contraddizione con le pronunce gemelle emesse dalla Suprema Corte in sede cautelare.
La Cassazione, difatti, accoglieva la qualificazione ai sensi del 416bis c.p. richiamando quello che si ritiene un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, che fa rientrare nella fattispecie in esame anche sodalizi minori e/o atipici ma che, proprio per la forza autonoma del metodo intimidatorio impiegato, conseguono gli stessi effetti coartativi.
Così ritenendo, parrebbe potersi trarre la conclusione per cui il dato territoriale, dimensionale e nominale non varrebbero da soli a identificare in via esclusiva un’associazione di stampo mafioso. Proprio in ragione della nostra storia, che al principio nemmeno intendeva la mafia come poi abbiamo imparato a conoscerla, dovremmo considerare le mafie tradizionali come ‘tipizzazione esperienziale’ e non piuttosto sostanziale nel contesto normativo codicistico.
La stessa Corte di legittimità qualificava il sodalizio criminoso Buzzi-Carminati in termini di ‘mafiosità’ per connotazioni interne e modalità relazionali e d’interazione esterne che a tale canovaccio sicuramente aderiscono dimostrandone l’estrema pervasività nel tessuto politico, economico e sociale.
L’incontro di note carriere criminali esprime un’autonoma forza intimidatrice interna ed esterna che funge da collante fra diverse attività e condotte illecite in distinti settori di interesse, ma evidentemente confluenti in un più generale e trasversale benessere associazionistico.
Difatti, unn’associazione per delinquere per essere qualificata ai sensi del 416bis c.p. non richiede un’indefettibile scaturigine mafiosa storica.
Da tale assunto prendeva avvio il Tribunale di Roma in sede di giudizio di primo grado, confutando ciononostante una qualsivolgia matrice mafiosa del pactum scelerisBuzzi-Carminati. Un’effettiva sostanziale confluenza e fusione dei rispettivi gruppi criminali si assumeva come non provata, essendosi potuta al più avanzare una semplice attiguità per singoli scopi delittuosi o comunque distorsivi del mercato (nella specie nell’ambito di gare pubbliche di appalto) più propriamente ricollocabili all’interno della fattispecie associazionistica semplice composta da altrettante associazioni delittuose semplici.
La riconducibilità del sodalizio a un noto passato criminale, anche di stampo eversivo, non bastava dunque a riconoscergli quella carica intimidatrice autonoma in grado di determinare da sola quella ‘riserva di violenza’ necessaria a dotare di carica mafiosa le diverse articolazioni agenti e utile a una sua sussunzione all’interno della fattispecie di cui al 416bis c.p.. Non si riteneva, dunque, sussistente quella carica di perdurante e acclarato timore idoneo a indurre uno stato di assoggettamento e omertà tipico della fattispecie in esame.
Trattandosi, perciò, di associazioni semplici confluite al più in un’altrettanta associazione semplice, volendo ritenere operata una sorta di fusione criminale, quest’ultima non avrebbe nemmeno un parametro criminale da cui derivare la rispettiva mafiosità storica come invece avviene per le mafie tradizionali e le rispettive articolazioni disseminate nel territorio nazionale, sebbene in contesti non ‘geneticamente connaturati’. In virtù di ciò veniva anche conseguentemente escluso altresì l’utilizzo del metodo e dell’agevolazione mafiosa di cui all’art. 7 del d.l. 152/1991 conv. mod. in l. . 203/1991, nonostante il disposto stesso non richieda la prova indefettibile dell’esistenza di un’associazione mafiosa innestandosi in termini aggravatori su tutti i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi assumendo un contegno o facendo intendere l’appartenenza a un sodalizio mafioso in modo da ingenerarne gli effetti tipici.
All’esito del giudizio d’appello, la Corte invece giunge a riconoscere la sussistenza del 416bis c.p. nonché dell’aggravante del metodo mafioso riconfermando così l’impostazione accusatoria originariamente proposta. La mafia romana, dunque, esiste. Attendiamo le motivazioni.