di Alessandro Faralla (Responsabile Cultura e Spettacoli F&D)
Le situazioni estreme, senza via d’uscita, che tramutano l’ordinario in straordinario sono una costante dei film di Jaume Collet-Serra che vedono come protagonista Liam Neeson.
Anche la quarta collaborazione tra i due non si sgancia da tali premesse.
L’uomo sul treno non mostra una situazione di base inconsueta facendo leva sull’immaginario, porta il protagonista e lo spettatore a vivere concretamente quell’evento, nella realtà, nella vita frenetica di tutti i giorni, come può essere quella di una metropoli e come è lo per i tanti pendolari come Michael McCauley.
Da dieci anni per recarsi al suo impiego da assicuratore il signor MicCauley prende il treno, condividendo il tempo con fiumi di individui, molti sconosciuti, alcuni familiari. Un giorno un passeggero ignoto si intrattiene a conversare con lui proponendogli un esperimento, una prova. Il gioco nel giro di una fermata diventa sfida: se non riuscirà ad individuare la persona “fuori posto” sul treno la sua famiglia e i passeggeri potrebbero non arrivare vivi alla fine della giornata.
La situazione al limite per Michael così lo era per altri personaggi dei film di Serra diventa l’occasione per una riappropriazione di sé, delle peculiarità, degli istinti che caratterizzano ogni individui. Se è necessario restare sul quel treno per portare a termine, senza farsi troppo male, un piano criminale che minaccia la tua normalità allo stesso tempo la cospirazione funge da esame per testare ciò che siamo realmente oltre l’ordinarietà di un’esistenza che non sempre ci appartiene.
A differenza delle trilogia Taken qui il personaggio di Neeson lotta per una famiglia che resta sempre sullo sfondo, e per proteggerla si affida ad un’ altra di comunità, composta da persone normali, di ogni età e provenienza sociale, la vera locomotiva di un paese che non si ferma mai, specie a guardare in faccia i workers. La componente socio-culturale viene quindi inserita dal regista senza sottolineature integrandola con intelligenza nell’ intreccio narrativo dall’inizio alla fine.
In L’uomo sul treno non è fondamentale capire chi si salverà o quale sarà la meta, ciò conta è il modo con cui si giunge a destinazione.
Il trhiller diventa empatico, volto a scavare nell’anima dei passeggeri e le parti action restano sul binario del plausibile; le ferite, gli acciacchi, la tensione sono tangibili: confusi, movimentati, ruvidi poco lineari e solidi come lo sguardo che Serra imprime al racconto.
E questo Liam Neeson non viene raffigurato come un soldato in letargo, ha il viso scavato, segni naturali dell’età, vulnerabile ma per questo più umano e identificabile.
L’uomo sul treno dimostra di voler offre nuove direzioni, di linguaggio e figurative, all’action e nel farlo va oltre il mero prodotto d’intrattenimento adrenalinico.