CELEBRIAMO INSIEME IL FUNERALE DI QUESTO DETTO POPOLARE
di Avv. Vanessa Marini (Studio Legale RPC)
Davanti al detto “l‘uomo vero ha da puzzà” resta difficile non sorridere e di certo provare ad immaginare come si possa essere arrivati al suo funerale non può farci restare seri.
Tuttavia, l’occasione per parlare di questo detto popolare viene da una recente sentenza della IV Sezione Penale della Corte di Cassazione che, presa per ciò che ha disposto, è tutt’altro che ironica, se non altro per il suo destinatario.
Con la sentenza n. 980 dello scorso 13 gennaio, infatti, gli ermellini hanno condannato a due anni e sei mesi di reclusione un pastore siciliano di Caltagirone per violenza sessuale (art. 609 bis c.p.) nei confronti della moglie.
L’uomo imponeva alla moglie di avere rapporti sessuali con lui al rientro dal pascolo e dalle attività di accudimento delle pecore senza “praticare alcuna igiene e pulizia del proprio corpo“; igiene a cui, invece, lo invitava inutilmente la consorte chiedendogli di farsi almeno una doccia.
In primo grado, il pastore – classe 1960 – era già stato condannato per violenza sessuale, ma la Corte di Appello di Catania, successivamente adìta, aveva riformato la sentenza del Tribunale ritenendo che i rapporti sessuali tra il verace pastore e la moglie dovevano ritenersi “consumati consensualmente”.
La donna – secondo la Corte – “rifiutava i rapporti sessuali solo per la scarsa igiene del marito …vi avrebbe consentito se lo stesso si fosse previamente lavato”. Dunque nessuna reale costrizione psicologica e nessun rilievo doveva essere attribuito al fatto che alla donna venissero puntualmente legate le mani per essere immobilizzata.
Questa circostanza per i giudici di secondo grado rilevava, invece, ai sensi dell’art. 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia), reato più lieve, per cui il pastore veniva infatti condannato.
Conclusione – per fortuna – rivista dalla Cassazione.
Evidenziando che il reato di violenza sessuale sussiste in tutti i casi in cui i rapporti sessuali vengono in qualsiasi modo imposti, non rilevando le modalità ed i mezzi utilizzati e le motivazioni che inducono la parte offesa a rifiutare un astratto rapporto sessuale (poi imposto), la Cassazione ha rinviato alla Corte di Appello perché riformasse la sentenza. La Corte di Appello bis ha quindi condannato il pastore.
Volendo per un momento sdrammatizzare quanto appena riferito, la prima cosa che è balenata in mente a chi ora scrive è “accidenti…per la serie l’omo vero ha da puzzà!”.
Questo detto popolare, contrariamente a quanto può sembrare non è l’ennesimo retaggio della cultura maschilista su cui era fondata la nostra società, ma ha profonde radici storiche che risalgono al sei-settecento.
In quei secoli l’igiene personale, al tempo dei romani basata su bagni regolari, venne infatti affidata al c.d. lavaggio a secco: cipria per coprire lo sporco nei capelli e cambio frequente della biancheria per assorbire sudore e sporcizia. L’importante non era essere puliti, ma sembrarlo.
Il bagno vero veniva fatto una sola volta all’anno (generalmente a maggio), tra l’altro ponendo in essere alcune precauzioni che, riportate ora nel loro insieme, fanno pensare più ad un malanno che ad una pratica di igiene: prima del bagno era necessario purgarsi e subito dopo ci si doveva stendere a letto per restarci un paio di giorni osservando una rigida dieta alimentare.
Il “malanno della pulizia” – così mi piace chiamarlo – fu addirittura considerato da re Enrico IV nel 1610 causa di legittimo impedimento politico di un suo Ministro che non si presentò alla convocazione reale adducendo quale motivo il “riposo post bagno annuale”.
Il sovrano francese non solo giustificò il Ministro Sully per non essersi presentato al suo cospetto, ma consultò il medico di palazzo per essere in grado di suggerirgli il comportamento “post-operazione di lavaggio” migliore da tenere.
Sully fu, dunque, invitato a presentarsi a palazzo solo all’indomani e comunque in camicia da notte, papalina e pantofole.
Ma non è tutto.
La stessa tradizione delle spose di portare il bouquet e di lanciarlo solo alla fine del matrimonio trae origine dalla scarsa igiene di quel secolo.
Poiché era usanza sposarsi nel mese di giugno e il bagno annuale avveniva a maggio, le spose per nascondere il proprio e l’altrui pronunciato “aroma” si dotavano del mazzo di fiori. Mazzo di cui, appunto e saggiamente, si liberavano solo alla fine della cerimonia, dovendo a quel punto sopportare il solo “odore di casa” e cioè il suo e quello del marito.
Solo quando è stato compreso che il frequente scoppio di epidemie era dovuto alla presenza di sporcizia nei corsi d’acqua e alla scarsa igiene personale, l’idea che l’olezzo andasse gelosamente conservato è stata, finalmente, abbandonata e l’igiene personale è diventata una sana abitudine.
Che ironia: vere e letali malattie (le epidemie) hanno sconfitto la “malattia della pulizia”!
Alla luce di quanto sopra riportato, ricorrendo a tutta la capacità di immaginazione di cui dispongo trovo forse una ragione alla gelosa difesa del proprio olezzo messa in atto dal pastore siciliano; ragione che di primo acchito mi è sembrata inesistente.
Vuoi vedere che il pastore, palesemente rimasto al livello culturale di secoli fa, ha pensato di omaggiare la propria sposa non effettuando alcuna forma di pulizia?“Non sia mai – si sarà detto – che sia io a contagiare la donna che amo con la “malattia della pulizia””.
Credo di esprimere l’opinione di tutti se rispondo “meglio correre il rischio del contagio!”.