CONCETTO DI IMPUTABILITA’ E VIZIO DI MENTE PER MALATI PSICHIATRICI AUTORI DI REATO (3 parte)
di Avv. Marusca Rossetti
Nell’intricata quanto mai triste vicenda che ruota intorno agli ospedali psichiatrici giudiziari, non ci si può esimere dal prendere in considerazione quelli che sono stati i passi in avanti determinati in tale materia da una serie di interventi messi a punto dalla Corte Costituzionale. Grazie ad alcune sentenze della Consulta il sistema di presunzioni previgente in base al quale il malato di mente resosi autore di reato, una volta prosciolto, veniva automaticamente internato negli opg senza che venisse verificato il permanere della sua pericolosità sociale in un momento successivo alla commissione del fatto, è stato definitivamente smantellato.
Con la prima pronuncia, la n. 139 del 27 luglio 1982, sono stati dichiarati incostituzionali gli artt. 222 comma 1, 204 cpv. e 205 cpv. n. 2 c.p. nella parte in cui non subordinavano il provvedimento di ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario dell’imputato prosciolto per infermità psichica proprio al previo accertamento da parte del giudice della cognizione o della esecuzione, della persistente pericolosità sociale derivante dalla infermità medesima, al tempo dell’applicazione della misura.
Corollario logico di questa decisione è stata quella successiva, la n. 249 del 28 luglio 1983 con la quale sono stati ritenuti illegittimi gli artt. 219 comma 1 e 2 e 204 cpv. 2 c.p.: anche l’art. 219 c.p. prevedeva, infatti, un meccanismo automatico di applicazione della misura di sicurezza della casa di custodia e cura al seminfermo di mente sulla base di una presunzione di persistenza della infermità psichica accertata al tempo della commissione del reato.
Poi è stata la volta della Sentenza n. 324 del 24 luglio 1998 che ha abolito l’applicazione della misura di sicurezza detentiva dell’ospedale psichiatrico giudiziario nei confronti dei minori e, infine, a distanza di alcuni anni, sono intervenute le pronunce n. 253 del 2003 e n. 367 del 2004.
Particolare attenzione merita, tra le ultime due menzionate, la Sentenza n. 253 con la quale la Consulta ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art.222 c.p. nella parte in cui non consentiva al giudice di adottare, nei riguardi del soggetto prosciolto per infermità psichica e giudicato socialmente pericoloso, una misura di sicurezza, tra quelle contemplate dalla legge, diversa dall’internamento in ospedale psichiatrico giudiziario, che risultasse idonea a soddisfare, nello stesso tempo, e l’esigenza di cura dell’infermo di mente e quella di controllo della sua pericolosità sociale.
E’stata, questa, una decisione di fondamentale importanza perché, per questa via, la Corte ha aperto la strada a misure più flessibili rispetto all’ospedale psichiatrico giudiziario in un’ottica di “superamento della pena manicomiale”.Il giudice remittente, vista l’impossibilità di disporre il regime di libertà vigilata verso un imputato accusato dei reati di violenza sessuale aggravata e lesioni, riconosciuto, a seguito di perizia psichiatrica eseguita durante le indagini preliminari, totalmente incapace di intendere e volere, e quindi non imputabile, ma, allo stesso tempo, non pericoloso se ricoverato in una comunità per psicotici, aveva sospeso il giudizio e trasmesso gli atti alla Corte, sollevando eccezione di illegittimità verso gli artt. 219 comma 1 e 3 e 222 c. p., per contrasto con gli artt. 3 e 32 Cost.Ciò che veniva contestata era la rigidità dei criteri previsti per l’applicazione della misura di sicurezza al non imputabile per vizio totale di mente e socialmente pericoloso, quando per il seminfermo e il minore non imputabile, comunque pericolosi, è contemplata dal codice una disciplina molto più elastica in base alla quale, in questo caso, avrebbe consentito di mantenere il piano di cura a cui l’imputato era già sottoposto, e che risultava adeguato ai fini della tutela della collettività, e di renderlo più efficace attraverso le prescrizioni relative alla libertà vigilata (artt. 224 e 232 comma 1 e 2 c.p.); salvo restando che, in caso di trasgressione al regime imposto, sarebbe rimasta al giudice la possibilità di convertire la misura della libertà vigilata in quella dell’internamento in ospedale psichiatrico giudiziario. Inoltre il giudice, nell’ordinanza, aveva segnalato che la scelta unica del ricovero segregante in ospedale psichiatrico giudiziario rendeva impossibile adottare soluzioni che fossero coerenti con le valutazioni medico-legali effettuate; quando, invece, l’esigenza di cura dell’infermo di mente e, contemporaneamente, l’esigenza di difesa della collettività, dovrebbero trovare soddisfacimento nell’applicazione della misura di sicurezza, con la conseguenza che, un trattamento corrispondente a una sola delle due istanze menzionate, risulta costituzionalmente illegittimo.
Ciò che ha consentito alla Consulta di accogliere l’eccezione sollevata dal giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Genova,è stata la circostanza che l’illegittimità dell’art. 222 c.p. non è stata proposta in relazione alle gravi carenze strutturali e operative degli ospedali psichiatrici giudiziari, o in relazione alla loro inadeguatezza sotto il profilo curativo e riabilitativo, bensì si è fatto rilevare come fosse incostituzionale l’automatismo della regola legale (contenuta nell’art. 222 c.p.) che imponeva al giudice, in caso di proscioglimento per infermità mentale, per un delitto punibile con una pena edittale superiore nel massimo a due anni, di ordinare il ricovero dell’imputato in manicomio giudiziario senza consentirgli di disporre, in alternativa, misure diverse e più adeguate alle caratteristiche del soggetto, alla sua minore pericolosità sociale e alle sue individuali esigenze terapeutiche .
Ne è conseguito che il ricovero automatico in ospedale psichiatrico giudiziario è stato dichiarato incostituzionale, in primo luogo perché non funzionale alla cura, se consiste in una terapia di cui non v’è bisogno; in secondo luogo perché non persegue la finalità di difesa sociale se non riesce a garantire adeguati risultati di recupero e reinserimento sociale dei soggetti ad esso.La Corte ha puntualizzato che in un ordinamento che sia improntato alla massima tutela della persona umana (art. 2 Cost.), le misure di sicurezza detentive in tanto si giustificano, in quanto rispondono allo stesso tempo alle due inscindibili finalità di cura dell’infermo e di contenimento della sua pericolosità sociale e un sistema che rispondesse solo ad una di queste istanze, non potrebbe considerarsi costituzionalmente ammissibile.
Non è stata la prima volta che analoghi automatismi legislativi sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi, ma quello dell’art. 222 c.p. ha resistito alle innumerevoli segnalazioni dei giudici di merito, fin quando non sono state messe a fuoco le ragioni della irrazionalità circa la mancata previsione, di qualunque possibilità di scelta giurisdizionale, che non fosse l’internamento in ospedale psichiatrico giudiziario.
L’infermo di mente che abbia compiuto atti costituenti oggettivamente reati, ma che non sia responsabile penalmente a causa della sua incapacità, è stato riconosciuto bisognoso di specifica protezione come il minore, in una valutazione di sostanziale similarità fra le due situazioni, pur se non di identità. Pertanto la Consulta non si è spinta fino al punto di dichiarare l’illegittimità della norma per violazione dell’art. 3 Cost., perché, tale situazione, anche se bisognosa di tutela in un ordinamento ispirato al principio personalista, non può essere equiparata “meccanicamente” allo status di oggettiva debolezza del minore. La censura, invece, è stata decretata per contrasto con l’art. 32 Cost., in quanto l’art. 222 c.p., obbligando il giudice ad internare in ospedale psichiatrico giudiziario il prosciolto non imputabile, anche quando in concreto tale misura non produca alcun risultato terapeutico, violava il diritto fondamentale dell’individuo alla salute. Tuttavia, la riconosciuta discrezionalità e la conseguente flessibilità di cui il giudice dispone ora nella scelta della misura alternativa al ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, non è assoluta. La Corte, infatti, ha precisato allora che dovrà trattarsi, comunque, di misura prevista dalla legge. Questo ha significato che l’unica altra misura applicabile in luogo di quella detentiva, è la libertà vigilata, magari recante con sé prescrizioni più stringenti e peculiari ed è qui che si nasconde la vera insidia, “perché le prescrizioni in parola non sono determinate ex lege (l’art. 228 c.p. specifica solo che debbano trattarsi di misure idonee ad evitare le occasioni di nuovi reati), ragion per cui godranno di un elevato grado di elasticità, rispetto al quale sarà direttamente proporzionale, in relazione al loro grado di incisività, il rischio di introdurre surrettiziamente, nuove tipologie di misure di sicurezza”.
Inoltre, l’ammissione al regime delle libertà vigilata di un soggetto prosciolto perché totalmente incapace di intendere e volere, ha fatto necessariamente sorgere l’interrogativo se questi, poi, di fatto, sarà in grado o meno di attenersi alle prescrizioni imposte dal giudice, sia pure di contenuto atipico e pur trattandosi di un’applicazione evolutiva della misura medesima, resa necessaria da un’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa vigente e corrispondente alla convinzione, sempre più diffusa, che la terapia più efficace impone la custodia in istituzioni aperte, è rimasta lo stesso la necessità che l’applicazione di misure non detentive debba essere decisa cum grano salis, tenendo conto del contesto familiare, sociale ed assistenziale in cui l’infermo di mente libero vigilato si dovrebbe inserire o reinserire.
Nel 2004, poi, il giudice delle leggi è tornato nuovamente ad occuparsi di applicazione delle misure di sicurezza con la Sentenza n. 367. In particolare ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 206 c.p. (che riguarda l’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza), per la parte in cui non consente al giudice di disporre, ancora una volta, una misura di sicurezza diversa dall’internamento in ospedale psichiatrico giudiziario, prevista dalla legge e che sia comunque idonea ad assicurare alla persona inferma di mente cure adeguate a contenere la sua pericolosità sociale. Il giudice delle leggi ha percorso un iter argomentativo parallelo a quello seguito nella sentenza n. 253; e questa decisione costituisce l’atteso e logico corollario di quella precedente, poichè ha consentito al giudice di disporre di una certa flessibilità nella scelta della misura di sicurezza da applicare non solo all’esito del giudizio, ma anche in via provvisoria. La Corte ha ritenuto, infatti, che se è illegittimo l’automatico ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario in caso di proscioglimento per infermità mentale allorquando misure diverse siano atte a soddisfare le esigenze di cura dell’infermo e di contenimento della sua pericolosità, questo automatismo si pone ancora più in contrasto con i principi di ragionevolezza e con il diritto alla salute, se applicato con riferimento a una fase processuale in cui gli accertamenti sul fatto non possiedono ancora il crisma della definitività.A seguito delle battute d’arresto ad opera della Corte Costituzionale, sono state presentate negli anni a seguire varie proposte di legge di riforma del codice penale (d.d.l. 29 settembre 1983 n. 177; d.d.l. 25 ottobre 1991, cd. “Progetto Pagliaro”; d.d.l. 2 agosto 1995 n. 2038, cd. “Progetto Riz”; d.d.l. 12 settembre 2000, cd. “Progetto Grosso” e in particolare il d.d.l. 8 agosto 1997 n. 4108, elaborato dalle Regioni Emilia Romagna e Toscana, in collaborazione con l’associazione “Michelucci”), dalle quali è emerso chiaramente come, dopo una iniziale titubanza circa il mantenimento della distinzione fra soggetti imputabili e non, si sia passati unanimemente a ritenere che la categoria della non imputabilità non possa essere cancellata e che il cuore della questione debba rinvenirsi appunto nel trattamento da destinare a individui che rientrano a pieno titolo nella categoria dei malati e, in quanto tali, abbisognano di cure.
La moderna psichiatria sostiene con profonda convinzione che un congruo trattamento del “folle-reo” sarebbe possibile già sulla base dell’impianto normativo esistente, se si procedesse alla realizzazione di un piano di intervento terapeutico incentrato, principalmente, su soluzioni extra moenia.
In questa logica, il ricorso alla misura di sicurezza detentiva sarebbe limitato alla fase iniziale. Una volta che questa fosse trascorsa, il malato dovrebbe poter essere affidato a un nuovo istituto o comunità all’interno dei quali opererebbe esclusivamente personale medico-psichiatrico, acquisendo, in corrispondenza dei miglioramenti della sua condizione psichica, sempre maggiori spazi di libertà.
In conclusione, ciò che è importante è che l’ordinamento si attivi per consentire la costituzione di questa rete di strumenti di trattamento, attraverso anche, e soprattutto, una più stretta collaborazione fra circuito giudiziario e medico, ma la realtà attuale dimostra, invece, come si sia ancora molto lontani dal raggiungimento di un simile risultato, nell’indifferenza, peraltro, più totale delle massime istituzioni che una volta di più non si occupano dei più deboli e reietti.