di Dr.ssa Lucia Moglie (Psicologa e Psicoterapeuta)
In vista del convegno “Eutanasia e aiuto al suicidio, i casi Welby, Englaro e Dj Fabo”, organizzato dall’Associazione Culturale Fatto&Diritto, che si terrà ad Ancona venerdì 15 Novembre, ho avuto modo di dedicare i miei pensieri a questa intricata ed interessante tematica.
I dibattiti sull’eutanasia e sul fine vita stanno impazzando su tutte le scene, a partire dal contesto giuridico e medico, fino a sbarcare sulle piazze, fisiche e virtuali.
Il tema era già caldo negli ultimi decenni, nei nomi di Englaro, Welby ed altri che, con le loro storie sono entrati nelle case di tutti noi ed hanno stimolato riflessioni, punti di vista, confronto.
Un confronto che purtroppo non è esitato per molto tempo in un dibattito nelle sedi legislative.
Con la sentenza di fine settembre della Corte Costituzionale in merito al processo a Marco Cappato, in cui l’organo “ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”, il tema è divenuto bollente.
Si leggono opinioni, si assiste a schieramenti, politici e non, sia tra chi pratica la materia giuridica, sia tra chi professa Ippocrate.
Mi chiedo dove siano le riflessioni di tipo prettamente psicologico.
Nel senso comune, il fatto che la morta sia certa è una consapevolezza imprescindibile, nonostante sia indubbiamente spaventoso e difficile da accettare.
L’ora della morte, invece, è del tutto fuori dal nostro controllo e tutti la accantoniamo dai nostri pensieri quanto più ci sia possibile.
Ma siamo chiamati ora a riflettere su cosa rappresenti “l’ora della morte” per un individuo malato “tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli” (cit. sentenza Corte Costituzionale). Egli è un individuo che vive una non vita, peraltro senza alcuna prospettiva, se non di tipo degenerativo.
Immagino che per lui quell’ora sia una vera e propria chimera che ha il profumo della liberazione…
Noi psicologi lavoriamo costantemente con l’obiettivo di rendere le persone capaci di ascoltarsi e libere di determinarsi, di essere come vorrebbero, ovviamente nelle condizioni di non nuocere ad alcuno.
Possiamo allora cercare di trattare, in modo circoscritto a tali casi, il pensiero di interrompere la propria vita come un desiderio di liberazione e autodeterminazione?
Dobbiamo far sì che questo tipo di riflessioni trovi spazio tra la gente, sfidando i tabù; dobbiamo farlo proprio a coscienza della nostra professione.