GIOVANE STUDENTESSA VIOLENTATA E SEVIZIATA SUL BUS, LA SENTENZA: IMPICCAGIONE PER I 4 RESPONSABILI
di Alessia Rondelli (praticante avvocato Studio Legale Associato Rossi-Papa-Copparoni)
-INDIA, 22 settembre 2013- Una vicenda terribile che ha sconvolto l’opinione pubblica per la brutalità con cui è stato compiuto il delitto. Dicembre, è sera, una giovane coppia sale su un bus privato diretto a New Delhi inconsapevoli di quello che li attende: sei ragazzi tra i 16 e i 30 anni, ubriachi, che viaggiavano anch’essi sul bus, iniziano a molestare i due fino a quando non scatta la violenza vera, inspiegabile. Massacrano di botte il ragazzo poi si avventano sulla ragazza: per più di un’ora violentano e seviziano la giovane studentessa di fisioterapia, la quale morirà dopo circa due settimane di agonia in ospedale a causa delle gravi lesioni riportate. La giustizia indiana si è pronunciata dopo nove mesi di processo, forse uno dei più seguiti mediaticamente, carico di tensioni: il giudice Yogesh Khanna ha deciso di infliggere ai 4 imputati la pena di morte (uno di essi si era suicidato a marzo in carcere, mentre l’unico minorenne del gruppo è stato processato a parte e condannato a 3 anni di riformatorio, il massimo di pena prevista in India per i minori). Il giudice ha perciò deciso di sostenere la linea dell’accusa riconoscendo nelle modalità di commissione del fatto quell’eccezionale gravità e brutalità tale da renderlo proprio uno di quei rari ed estremi casi per cui è ammessa la pena capitale. Soddisfatti sicuramente il pubblico ministero e la famiglia della povera ragazza, soprannominata Nirbhaya “colei che non ha paura”, che così sembra aver trovato giustizia, anche perché si tratterebbe proprio del primo caso di condanna a morte per reati sessuali. Questo grazie al lavoro messo a punto dal governo indiano volto alla modifica del codice penale con l’inasprimento delle pene previste per i reati di violenze sessuali, soprattutto quando ne deriva la morte della vittima, cercando di dare risposta immediata all’ondata di brutali violenze diffusa nel Paese, spesso rivolta a donne ed anche bambine in tenera età. Il popolo indiano ha dimostrato solidarietà alla famiglia della vittima, sono state organizzate varie manifestazioni e tutti hanno aspettato con il fiato sospeso il verdetto di una vicenda che ha letteralmente scosso gli animi della gente, contribuendo ad infrangere il muro di omertà che esiste ancora sul tema in India. Di totale opposta idea invece i difensori dei 4 condannati all’impiccagione, tutti in lacrime in aula, i quali hanno già annunciato ricorso in appello alla Corte Suprema ed in extremis al Capo di Stato, esperibili però solo dopo la conferma dell’Alta Corte, per provare a commutare la pena nel carcere a vita. Si tratta di un tema scottante, da sempre diviso tra opinioni contrastanti, tra chi come Amnesty International non ritiene la pena di morte la giusta risposta né un valido deterrente ad un problema endemico, che sarebbe più opportuno affrontare con profonde riforme del sistema e non solo con ‘vendette a breve termine’ (per esempio non è riconosciuto come reato lo stupro commesso dal coniuge) ed i molti che invece credono che in casi così efferati essa sia ben poca cosa rispetto al danno. È assolutamente comprensibile la rabbia di massa innescata da questo episodio, ma si reclama che l’attenzione posta a questo caso venga posta anche sugli altri migliaia di casi simili e che porti ad innovare qualche elemento, come per esempio aumentare il numero dei giudici (attualmente ci sono solo 14 giudici a fronte di 1 miliardo di popolazione e circa 24.000 processi pendenti) e migliorare l’addestramento delle forze di polizia. Ciò che sarebbe necessario più di sentenze esemplari sarebbe un’azione concreta e sistematica per modificare l’idea culturale di base, quell’idea che tende alla fin fine a punire più la vittima del carnefice e porta nella maggior parte dei casi ancora a non denunciare gli abusi.