PER LA CASSAZIONE VALE COME L’OFFESA A MEZZO STAMPA
di Avv. Daniela Fogliano
L’abitudine al garbo, la misura nell’esprimere le proprie opinioni, l’equilibrio nell’analisi e nel giudizio, l’educazione lessicale si risolvono oggi nella affermazione indifferenziata e strumentale del proprio (e personalissimo) diritto di parola, pensiero, opinione. Poco conta il modo di esprimersi, l’essenziale è proclamare il proprio urlo di libertà al di sopra del coro, più forte degli altri e con la maggior risonanza possibile.
E conta ancor meno il soggetto da cui promana “l’aulico pensiero”: che tu sia l’uomo qualunque, il colto intellettuale, il politico o il governante oggi ciascuno pensa di avere il diritto di travasare il proprio pensiero in parole, lecite o illecite, elogianti o diffamatorie.
La fatica dei padri costituenti di trovare un equo contemperamento tra diritti inviolabili, di far coesistere la libertà di manifestazione del pensiero con il diritto all’integrità dell’onore e della reputazione di ogni cittadino troppo spesso si dissolve nella bieca strumentalizzazione delle ragioni dei singoli.
In tale panorama in cui ognuno rivendica diritti, dimentico dei propri doveri, l’impiego massivo dei social media contribuisce ad amplificare il contenzioso, da sempre esistente nel nostro Paese, in tema di diffamazione.
L’art. 595 del nostro codice penale, al comma III, prevede espressamente che chiunque offenda l’altrui reputazione con il mezzo della stampa ovvero con “qualsiasi altro mezzo di pubblicità” venga punito con maggior severità rispetto all’ipotesi “tradizionale” di lesione dell’altrui reputazione cagionata mediante la semplice diffusione dell’offesa nella cerchia dei consociati, vale a dire in un ambito più o meno ampio di persone.
Proprio la lungimiranza del legislatore del codice penale – che già nel 1930 aggiungendo la clausola “qualsiasi mezzo di pubblicità”, aveva previsto una generalità di mezzi tutti ugualmente idonei a recare offese – ha condotto, di recente, la Suprema Corte di Cassazione a ricomprendere nella fattispecie penale appena descritta (diffamazione a mezzo stampa o altro mezzo di pubblicità) anche la diffamazione “a mezzo Facebook”.
Dopo aver più volte affermato la possibilità di commettere il reato di diffamazione anche mediante l’uso di internet la Corte, applicando la lettera della legge, ha sancito che la condotta di postare un commento offensivo sulla bacheca di Facebook di un utente realizza il reato previsto dall’art. 595 c. 3 c.p., ovvero un’ipotesi di “diffamazione aggravata”.
I giudici di legittimità fondano la propria decisione sulla considerazione secondo cui “la diffusione di un messaggio con le modalità consentite dall’utilizzo per questo di una bacheca facebook, ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sia perché, per comune esperienza, bacheche di tal natura racchiudono un numero apprezzabile di persone (senza le quali la bacheca facebook non avrebbe senso), sia perché l’utilizzo di facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione”.
Tale pronuncia che, come detto, altro non fa che interpretare ed applicare letteralmente il dettato normativo del codice penale, suscita non poche riflessioni extra-processuali.
Nella società attuale ove ciascuno pretende di vedere affermati i propri diritti (e di ottenere una risarcimento economico per la violazione degli stessi) non stupirebbe un proliferare di azioni giudiziarie che ergendo a baluardo della propria personale difesa la recente pronuncia della Suprema Corte reclamino una tutela sempre maggiore della propria “inviolabile reputazione”. Ferma la libertà di ciascuno di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti (art. 24 Costituzione) sarebbe auspicabile, come suggerito da qualche commentatore a margine della sentenza della Suprema Corte, “approntare una cura al morbo” ed educare i potenziali condannati (ex art. 595 c.p.) all’arte della parola scritta, qualsiasi sia il mezzo d’espressione usato per veicolare il proprio pensiero, memori del pensiero ciceroniano secondo cui: “oratore perfetto e degno di un nome così illustre è solo colui che, qualunque sia l’argomento che dovrà essere illustrato con la parola, saprà parlare con cognizione di causa, con ordine, con eleganza, con buona memoria e nello stesso tempo con una certa dignità di gesti.” (Cicerone, De oratore, Libro I, XV, 64).