L’ANALISI GIURIDICA (E NON SOLO)
di Dott.ssa Serena Cantarelli
Tanto tuonò che alla fine piovve….o forse no…..
La riforma del regime penale della prescrizione sarà modificata secondo un accordo politico dell’ultimo momento il quale prevede, come primo passo, una “sospensione tecnica” da inserire nel cosiddetto decreto “Milleproroghe”; successivamente la sospensiva sarà sostituita, durante la discussione parlamentare, con le modifiche previste dal c.d. lodo Conte-bis (perché proposto dall’avvocato Federico Conte, deputato di LEU, da non confondere con il Presidente del Consiglio dei ministri), tramite un emendamento.
Contenuta nella legge n.3 del 2019, la riforma (c.d. Bonafede) del regime della prescrizione penale è ufficialmente entrata in vigore il 1° gennaio del nuovo anno inasprendo un dibattito sorto sin dai primi giorni della sua stesura e che ha accompagnato la sua approvazione. Un dibattito non solo politico e che vede coinvolti i principali attori della giustizia penale.
Difatti le cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario sono state caratterizzate, in varie città Italiane, dalle vibranti proteste degli avvocati penalisti i quali hanno sfilato nelle aule di Tribunale, anche in forma provocatoriamente goliardica, mostrandosi con i polsi ammanettati, come è successo a Napoli, o senza toga, come accaduto a Messina.
Ma le polemiche e le proteste dell’avvocatura e della magistratura contro la nuova legge proseguono ininterrottamente da molti mesi.
Ma quali sono i principi e gli interessi contrapposti legati alla prescrizione che hanno movimentato, nel corso degli ultimi, questo istituto giuridico e che sono fonte di continue proteste e pressioni politiche?
Una riflessione in ordine ai dibattiti e alle polemiche degli ultimi giorni in merito alla riforma della prescrizione non può prescindere dall’individuazione della ratio che ispira tale istituto.
Essa, in risposta a precisi dettati costituzionali quale, in primis, l’art. 111 che sancisce la ragionevole durata del processo, determina l’estinzione del reato sul presupposto del trascorrere di un determinato periodo di tempo.
La regola, condivisa nell’ambito della scienza penalistica, in base alla quale lo Stato rinuncia a punire reati risalenti nel tempo risponde a esigenze diverse: innanzitutto, appare inutile e inopportuno sanzionare condotte di persone ormai cambiate rispetto al tempo in cui il reato fu commesso, venendo meno la funzione sociale e preventiva della pena; evitare, poi, che il tempo possa rendere eccessivamente gravosa, se non impossibile, la difesa dell’imputato (le prove documentali e testimoniali, infatti, risultano meno attendibili e più difficili da assumere); inoltre, non sembra opportuno, per un ordinamento civile, lasciare che una persona possa essere danneggiata dell’eccessiva durata del processo.
A questo principio si contrappongono altre esigenze, divergenti dalle precedenti: quelle delle parti lese di essere tutelate nei loro diritti, dello Stato che, a fronte dell’impunità di reati immeritatamente o astutamente conquistata, deve prendere atto di un’obiettiva sconfitta del sistema, ecc.
Si tratta quindi di un istituto “ambiguo” che richiede necessariamente un accurato bilanciamento tra esigenze divergenti, tra punibilità e non punibilità, tra penalmente rilevante e penalmente irrilevante.
Volendo parafrasare una famosa frase di Luciano Moggi, l’Italia “è campione di prescrizioni”.
L’argomento è complesso e non è riducibile agli slogan delle diverse fazioni politiche le quali lasciano intendere, al proprio elettorato, di poter rimuovere alcuni gravi guasti nel nostro sistema penale attraverso riforme frutto di litigi e compromessi, ben lungi da intese limpide e protese all’ascolto di coloro che si occupano di giustizia nelle aule dei Tribunali e delle Corti di appello.
In buona sostanza il nuovo intervento riformatore prevede che, a decorrere dal 1° gennaio 2020, dopo la sentenza penale di primo grado venga sospeso il decorso della prescrizione, sia in caso si condanna che in caso di assoluzione, fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio. L’obiettivo della riforma è, con tutta evidenza, quello di evitare che venga frustrata l’effettività della sanzione conseguente alla commissione del reato.
La riforma è stata sin da subito oggetto di critiche serrate da parte di quanti, attori politici e non, ritengano che non sia possibile prevedere una modifica del regime della prescrizione avulsa dal complesso del processo penale.
È quanto ritiene, per citare una voce autorevole, il primo presidente della Corte suprema di Cassazione, Giovanni Mammone, che in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, dinanzi alle massime autorità dello Stato, ha evidenziato le conseguenze che potrebbero derivare in ordine alla scarsa incisività della nuova disciplina, che non terrebbe conto, da un lato, che la maggior parte delle prescrizioni maturano nella fasi procedimentali anteriori al giudizio di primo grado, dall’altro che la sospensione della prescrizione potrebbe dilatare i tempi di risposta della giustizia a seguito dell’aumento del carico di lavoro delle Corti. Egli, quindi, ritiene “auspicabile che intervengano concrete misure legislative in grado di accelerare il processo, in quanto ferma è la convinzione che sia la conformazione stessa del giudizio penale a dilatare oltremodo i tempi processuali”.
La voce del primo Presidente non è una voce isolata, così come mostrano le eclatanti proteste degli ultimi giorni. E, anzi, c’è chi giunge a rilevare profili di incostituzionalità nella nuova riforma. In questo senso il Presidente emerito della Consulta, Cesare Mirabelli, il quale ritiene che l’esercizio indefinito nel tempo della potestà punitiva dello Stato diminuisca le garanzie nei confronti dei cittadini, con buona pace dei principi costituzionali della ragionevole durata del processo e della presunzione di non colpevolezza.
I dubbi di costituzionalità dello stesso permangono anche in riferimento al nuovo accordo raggiunto dalla maggioranza di governo, dopo estenuanti giorni di dibattito, con il lodo Conte bis. Con esso si stabilisce una distinzione tra condannati ed assolti, in primo e secondo grado, con lo stop al decorrere della prescrizione solo per i primi.
Un compromesso, dunque, che non convince e che mostra come l’intervento di riforma appaia in realtà prigioniero di convinzioni o convenienze politiche, lontano dall’auspicabile ascolto della scienza e della cultura giuridica.
L’auspicio è, quindi, quello che nel prosieguo il dibattito si allarghi ad una riforma che preveda, pur nel rispetto delle rispettive prerogative, un costruttivo confronto con gli attori della giustizia penale e che riesca a individuare risposte che, ponendo rimedio alle attuali disfunzioni del sistema, assicurino la funzionalità di tutte le componenti sostanziali e processuali.