COSA SUCCEDE QUANDO SI È CHIAMATI A RICONOSCERE UN ESSERE IN QUANTO UMANO, SEBBENE NELLA SUA BRUTALITÀ?
di Avv. Irene Pastore
L’Italia è intimamente scossa da quanto recentemente affermato dalla Suprema Corte di Cassazione in merito a quella soglia minima di dignità da riconoscere anche a Salvatore Riina, detto ‘u Curtu o la Belva.
Sono tristemente noti i fatti, al di fuori di qualsivoglia concezione umana, che hanno consacrato quest’ultimo alla storia del nostro paese, afflitta dalla piaga mafiosa.
Il web si è mosso all’assalto allestendo prontamente le proprie gogne, accantonate nei meandri della rete e (ri)esposte al pubblico “clic”.
Ancora una volta, bersaglio indiscusso è il sistema Giustizia generalmente inteso, notoriamente proclamato assente o quantomeno incapace.
Certo, sentire accostare il concetto di dignità a un nome quale quello di Salvatore Riina, dotato di per sé di spiccata ferocia e crudeltà, non può che destare le comuni coscienze in quell’eterno conflitto fra morale e legale.
Contrariamente a quanto è stato strumentalmente diffuso e in maniera disinformata avallato, la decisione degli ermellini non ha né disposto né suggerito un’anticipata scarcerazione di un conclamato boss mafioso.
Concentratasi su carenze motivatorie dell’ordinanza di rigetto dell’istanza principale di differimento dell’esecuzione della pena ex art. 147, co.1 n.2 c.p. e, quantomeno, di suo svolgimento in regime di detenzione domiciliare, la pronuncia della Suprema Corte sembra piuttosto aver mosso un importante ammonimento al Tribunale di Sorveglianza di Bologna.
Difatti, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale europea e delle più recenti pronunce di condanna nei confronti dell’Italia per esecuzione di pene contrarie all’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) in quanto sostanzialmente tradottesi in trattamenti disumani e contrari alla dignità umana, è compito proprio della giustizia di sorveglianza evitare strumentali e dilatori ricorsi alla Corte di Strasburgo evitando, quindi, di esporre il fianco a contestazioni di sorta soprattutto in punto di motivazione del diniego della sospensione facoltativa di cui all’art. 147 c.p..
Occorre, allora, proprio premetter un breve excursus in merito all’art. 3 CEDU1, al fine di comprendere come e in che termini possa riguardare le decisioni relative alle istanze proposte dal detenuto Riina.
In sede europea non è direttamente riconosciuto in termini assolutistici il diritto alla salute, sebbene mediatamente richiamato e tutelato mediante il riconoscimento del fondamentale diritto alla vita e alla dignità.
Ad oggi ben può affermarsi che il diritto alla salute dell’individuo, indi per cui del detenuto, è stato ricondotto in via giurisprudenziale nel più generale divieto di tortura di cui all’art. 3 CEDU, il quale espressamente dispone che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
Numerose sono le pronunce europee susseguitesi nel tempo sull’indubbia applicabilità di tale principio anche con riferimento al trattamento penitenziario.
In prima battuta, proprio in relazione all’art. 3CEDU si è analizzata la compatibilità del regime del carcere duro di cui all’art. 41bis ordinamento penitenziario (ord. pen.) all’indomani della sua introduzione, quale ferrea risposta sanzionatoria a quanti resisi autori dei più efferati delitti inquadrati nella più ampia cornice del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso; ciò soprattutto al fine di interrompere quella contiguità fra gruppo criminale e capo mandamento, nonché fra quest’ultimo e il territorio di appartenenza che avrebbero reso inutile persino la carcerazione.
Sul punto la Commissione Europea negli anni 1997/1998 in occasione delle decisioni sui casi Labita e Natoli c. Italia ha affermato come tali misure, sebbene severe, siano da considerarsi del tutto proporzionate alla gravità del reato commesso, fermo restando il limite del minimo di gravità necessario superato il quale verrebbe a configurarsi un trattamento inumano e degradante2.
Profilo di proporzionalità ancor più apprezzato a seguito degli sforzi profusi dalla giurisprudenza costituzionale in sede di bilanciamento fra tale regime carcerario e i diritti fondamentali, a chiunque riconosciuti e spettanti.
Nonostante ciò, particolari criticità rispetto al divieto sancito dall’art. 3 CEDU sorgono nel momento in cui sia necessario procedere a una valutazione di compatibilità del regime del carcere duro rispetto alle condizioni di salute del detenuto; in quanto, sebbene non esista un dovere di rimessione in libertà del detenuto la cui salute risulti compromessa, sussisterebbe pur sempre un obbligo di esecuzione della pena con modalità che ne preservino l’integrità fisica anche non aumentando quei livello di sofferenza e angoscia intrinseci a una situazione di totale privazione della libertà personale3.
Difatti, non ogni condotta lesiva dell’integrità fisiopsichica integra una violazione del divieto di cui all’art. 3 CEDU, essendo a tal fine pur sempre necessario il concreto superamento di una soglia minima di gravità, da valutarsi caso per caso, che la qualifichi come inumana o quantomeno degradante oltre ogni ragionevole dubbio.
Agli stati spetta, dunque, l’obbligo di prestare un’assistenza medica adeguata, il quale a sua volta si traduce: nel dovere di verificare nel soggetto l’indefettibile “capacità di subire la detenzione”4; nel verificare che il sistema penitenziario sia in grado di fornire il trattamento sanitario necessario e prescritto; nell’adeguatezza dell’ambiente carcerario rispetto alle peculiari esigenze del detenuto, il cui standard va parametrato in concreto con riferimento alla dignità umana (e non a quello dei migliori istituti di cura) 5.
Nel caso Enea c. Italia6, i giudici di Strasburgo non hanno ritenuto incompatibile le condizioni di salute addotte nel caso di specie col regime del 41bis, avendo le autorità provveduto ad assicurare idonei strumenti di diagnosi, di cura e di assistenza rispetto alla grave patologia del detenuto; inoltre, l’afferenza di quest’ultimo a un’associazione criminale di stampo mafioso giustificava il regime carcerario cui era sottoposto proprio per i profili di pericolosità sociale che le sono propri.
Da ciò si deduceva, quindi, che le valutazioni sullo stato di salute del detenuto potevano essere pur sempre condizionate dalle valutazioni in merito alla pericolosità del soggetto.
Da ultimo, però, la sentenza della Corte EDU del 2014, Contrada c. Italia – la quale ha fatto seguito in sede europea alle condanne subite dall’Italia con riferimento alla c.d. saga Scoppola proprio in tema di compatibilità delle condizioni di detenzione con l’art. 3 CEDU- sembra, in primo luogo, avere definitivamente consacrato l’assunto giurisprudenziale che vede proprio nel divieto di trattamenti inumani uno standard di tutela minimo da riconoscere ai detenuti quali, pur sempre, soggetti di diritto; in secondo luogo, appare superare la granitica incidenza del requisito della pericolosità sociale proprio in considerazione della dignità umana.
Ben si comprende, allora, il monito lanciato dalla Suprema Corte di Cassazione sul caso Riina, laddove l’ordinanza di rigetto delle istanze di sospensione dell’esecuzione o sostituzione della detenzione carceraria con quella domiciliare non sembrava poter resistere a giudizi di tal posta, giacché contraddittoria nel riconoscere la gravità delle condizioni di salute dell’istante per poi negarne le pretese proprio in considerazione di una pericolosità non adeguatamente giustificata.
Difatti, proprio con riferimento alla pericolosità sociale va precisato come, da ultimo, anche la Corte Costituzionale ne abbia imposto un’attualizzazione in sede di valutazione, soprattutto, per quel che qui interessa, in relazione al diritto alla salute – dal nostro ordinamento espressamente riconosciuto e tutelato all’art. 32 Cost.- e prima ancora al principio di legalità della pena e alla sua funzione rieducativa ex art. 27 Cost..
Ciò, anche e soprattutto, al fine di poter prevenire strumentali impugnazioni in sede internazionale.
Un sistema regge allorquando venga considerato nelle sue estreme conseguenze.
È proprio la pericolosità sociale, allora, la chiave utile e necessaria sul quale innestare la necessità che Salvatore Riina rimanga non solo in carcere, ma anche in regime di carcere duro di cui al 41bis ord. pen. e sulla quale, perciò, alcuna deficienza valutativa e giustificativa deve poter essere rinvenibile.
In conclusione, a parte le ritenute doverose considerazioni giuridiche sul punto, non può essere tralasciato un aspetto più intimo.
Non lasciamo che la nostra emotività si presti a strumentalizzazioni sensazionalistiche e obnubilanti.
Non sentiamoci in dovere di dover fornire un’immediata risposta disinformata nella bulimica compulsione del web.
Cerchiamo, invece, di andare a fondo e capire perché certe risposte non possano essere automatiche, ma debbano passare attraverso considerazioni conflittuali per giungere a una risposta giusta.
Ricordiamoci sempre ciò che davvero ci distingue da un Riina o chi per lui.
Ricordiamoci sempre che chi è caduto per sua mano ha combattuto per uno Stato di diritto.
PER LEGGERE L’INTERA SENTENZA CLICCA QUI:
NOTE: 1 vedasi ‘La Corte dei Diritti dell’Uomo torna a pronunciarsi sul divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti: l’inadeguatezza degli standard di tutela delle condizioni di salute del detenuto integrano una violazione dell’art. 3 CEDU – nota a C. eur. Dir. Uomo, 11 febbraio 2014, Contrada c. Italia (n.2), ric. N. 7509/08’ di Veronica Manca su Diritto Penale Contemporaneo.
2 Per approfondimenti: ‘La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sul regime carcerario ex art. 41-bis ord. penit. e la sua applicazione nell’ordinamento italiano’, di Carmelo Minnella – Centro di Diritto Penale Europeo di Catania. 3 Vedasi Corte Edu 2002, Mouisel c. Francia. 4 Corte EDU 2010, Xiros c. Grecia. 5 Vedasi ‘La tutela del diritto alla salute in carcere nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo’ di Francesco Cecchini in Diritto Penale Contemporaneo, nonché Corte EDU 2010 – Kazhokar c. Russia. 6 Pronuncia Corte EDU (Grande Camera) del settembre 2009, ricorso n. 74912/01.