RESURREZIONE GRUNGE E STONER
ANCONA – di Enrico Vianelli – “Grunge’s not dead”, o forse è resuscitato. Questa la frase che meglio sintetizza il lavoro sfornato da Need Her Liver per la indie “Rainy Dayz Blues Machine” all’inizio di questa estate. Le dieci tracce di “Nuna” rievocano i riverberi tipici di band come Soundgarden, Alice In Chains, Pearl Jam o Stone Temple Pilots, ma in modo personale, diverso, nuovo e fresco; dimenticate i copiaticci di imberbi ragazzi in astinenza creativa. Una certa linearità caratterizza ogni traccia di questo Cd molto composito. Ovvero un’accuratezza elevata, senza sbavature, che regala emozioni forti, con un incedere potente ma smussato, morbido, sapiente, rotondo.
La band anconetana, che ha cominciato a muovere i primi passi nel 1999, annovera attualmente 5 membri: Alessandro Servadei (basso), Patrizio Vigiani (batteria), Diego Giannini (voce), Daniele Sconocchini e Renato Rossi (chitarre).
“Nuna” – preceduto da altri 2 album: “Isaiah” (2006) e “Gigante” (2010), con formazioni diverse – si presenta con gli art works molto particolari di Diego Barabba Giannini (uno compare anche in copertina). Un lavoro da ascoltare a volume sostenuto, specialmente all’inizio, per goderne appieno.
Dopo la breve intro di tenui arpeggi, si viene sbattuti sulla sostenuta ritmica di “Wall Street”. Un pezzo rappresentativo del ruggito del grunge sofisticato che ci ha accompagnato negli anni ’90, ma più ripulito (non quello di certi abusatissimi Nirvana o Smashing Pumpkins). Più di otto minuti in cui chitarre ben cadenzate si alternano a brevi fraseggi di tastiere. Il testo, in inglese come per le altre tracce, è una poesia tormentata, con le parole che si riflettono perfettamente nelle note.
L’ambiente ideale dove poter apprezzare al meglio i suoni di “Nuna” è il lungo nastro d’asfalto di una strada provinciale o di un’autostrada infuocato dal sole: canzoni come la granitica “The Mimic” si fondono con le sensazioni di puro abbandono alienante attinte dai paesaggi che ci scivolano intorno. Parole poetiche tormentate, dicevamo. “Adam nation” non è da meno, intrisa com’è di vaga frustrazione. Persino le ritmiche ora decelerano per adagiare l’ascoltatore in un giaciglio ideale, una culla intimista, meditativa; cala una specie di fiammeggiante tramonto, in un mescolarsi di voce, cori e chitarre, armonico e incessante. “Helen of Troy” si annuncia con un tambureggiare di percussioni, è la prima di una serie di ballate molto curate, forse fra le più riuscite di “Nuna”. Un’impronta malinconica accompagna tutta la canzone, i toni sono delicati e ben mescolati, grazie all’articolato accompagnamento di tutti gli strumenti. Il canovaccio offerto è quello di chi, esperiti amore e tradimento, si arrende a un destino ineluttabile. Una sorta di brano spartiacque, che chiude la prima parte decisamente grunge del Cd. La seconda si presenta stavolta, più spiccatamente stoner, con ritmi più incalzanti e psichedelici. E’ “Sex ultimatum” ad avviarci in questa dimensione ulteriore dei Need Her Liver. Canzone a tinte fosche, sognante, vagamente acida, ma che a metà percorso mostra una ritmica più massiccia e sempre più “suor”. Un incedere impreziosito nuovamente dalle tastiere che ne incrementano la portata psichedelico-stroboscopica. Segue “Wackanal”, altra ballad, che ricorda i brani lenti degli scandinavi Opeth. Gli arpeggiati cadono delicati insieme alle parole come fiocchi di neve, fluttuando. “Apollo” riporta ad una dimensione marcatamente stoner. Un sound che evoca i Queen Of The Stone Age, ma che si distingue per la morbidezza d’impatto, offrendo sfumature più poetiche anche se sempre animate da stacchi di chitarra ben piazzati. Un altro saggio della poesia musicale del gruppo è “Planet Bench”: la linea melodica sorniona si dipana verso dopo verso, con classe, fino all’ultima nota. “The Horde” ci ri-proietta in questo “sour-stoner” che ormai ci ha rapiti e convinti: impossibile non “scapellare” quando partono le chitarrone in modo sinergico/energico. Chiude “Nuna” la bella “Bitter Cup”. A sorprenderci è un pizzico di blues che viene dosato giusto il minimo per impreziosire un insieme liricamente malinconico.
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(articolo tratto da Urlo – mensile di resistenza giovanile)