di JESSICA DI BIASE
Il mio caro bisnonno diceva sempre: “le parole fanno più male delle pietre”.
Ho sentito l’esigenza di fare questa premessa perché oggetto del mio articolo è la condotta nota a tutti come ‘revenge porn’ ma che, è bene chiarire immediatamente, non ha nulla a che fare con il porno: la fattispecie in esame consiste infatti nella diffusione di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito che avvenga senza il consenso dei soggetti ritratti; qualificarlo ‘revenge porn’ invece è fuorviante e contribuisce alla vittimizzazione secondaria della persona offesa, perché non fa altro che alimentare una prospettiva culturale errata che porta a colpevolizzare la vittima (victim blaming) piuttosto che l’autore del reato, con esiti tragici, forse evitabili con la semplice attenzione al linguaggio.
Bisognerà accontentarci per ora della criminalizzazione della condotta, avvenuta infatti soltanto lo scorso anno ad opera della Legge 69/2019, che ha finalmente cercato di colmare l’importante gap, che sfocia spesso nella patologia, tra l’evolversi della società, con conseguenti nuove istanze di tutela, e l’adeguamento della legislazione penale. La legge in questione ha introdotto nel codice penale l’articolo 612-ter che prevede la reclusione da 1 a 6 anni e la multa da 5000 a 15000 euro per chiunque invii, consegni, ceda, pubblichi o diffonda immagini/video sessualmente espliciti destinati a rimanere privati, senza il consenso del soggetto ritratto.
L’impressione però è che si poteva, e si doveva, fare molto di più. La norma in questione infatti, con una formulazione non propriamente lineare, effettua una distinzione dei possibili soggetti attivi del reato dalla quale deriva una diversa configurazione, a parere di chi scrive poco condivisibile, della fattispecie: se infatti la condotta è attuata dal soggetto autore del materiale sessualmente esplicito, che sia o meno protagonista dello stesso insieme alla vittima, oppure dal soggetto che entra in possesso del materiale sottraendolo illecitamente allo stesso autore, per la configurazione del reato non è richiesto il perseguimento di un particolare scopo da parte del reo (dolo generico); se invece il soggetto attivo riceve questo materiale, senza essersi adoperato per entrarne in possesso, allora il reato si configurerà soltanto ove il reo abbia posto in essere la condotta allo specifico fine di recare nocumento alla vittima (dolo specifico). L’offesa alla persona ritratta nell’immagine/video sessualmente esplicito, derivante dalla diffusione senza il suo consenso, non muta a seconda della modalità con la quale il soggetto che attua la condotta sia venuto in possesso del materiale in questione, quindi non si comprende la richiesta di un ulteriore elemento costitutivo, che rende più difficoltosa l’integrazione, e di conseguenza la persecuzione, del reato.
Parimenti condivisibile la critica secondo cui sarebbe stata opportuna una differenziazione del trattamento sanzionatorio tra le condotte di invio, consegna e cessione del materiale, che implicano una circolazione più ristretta, tra soggetti determinati ed invece le condotte di pubblicazione e diffusione del materiale, che implicano una circolazione tra soggetti indeterminati, virale e pertanto più grave in quanto maggiormente lesiva per la vittima, in ossequio all’idea di proporzionalità.
Inoltre, dato che la diffusione di materiale sessualmente esplicito senza il consenso della persona ritratta è un reato ascrivibile nell’ambito della violenza di genere, inserito appunto nella legge 69/2019 recante disposizioni in materia di tutela di vittime di violenza domestica e di genere, non si comprende la scelta del legislatore di escludere proprio tale reato dalla corsia preferenziale delineata dalla stessa legge 69 per i reati in questione (cosiddetto codice rosso), che impone al Pm di sentire la persona offesa entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato: infatti nei casi di cui all’art. 612-ter la celerità dell’intervento è fondamentale per delimitare il più possibile la diffusione del materiale privato, in modo da circoscrivere i danni che ne derivano alla persona offesa, che avrà interesse al tempestivo blocco della circolazione del materiale ed alla rimozione dello stesso dai server utilizzati per la diffusione. E proprio qui viene la nota dolente: la nostra legislazione in materia non contiene una soddisfacente affermazione della responsabilità degli internet service provider, seppure sia da segnalare l’importante apertura della giurisprudenza (ordinanza del Tribunale di Napoli Nord sul caso Tiziana Cantone), che ha affermato l’obbligo del provider di rimuovere i contenuti segnalati anche solo dall’utente, senza che la rimozione sia ordinata dall’autorità amministrativa o giudiziaria (unica circostanza in cui invece sorgeva l’obbligo ex comma 3 art 16 dlgs70/2003).
Un importante passo è stato fatto, ma la strada sembra ancora lunga.
Jessica Di Biase
Bibliografia/Sitografia:
-‘La tutela della persona nella realtà telematica: revenge porn e cyberstalking’ di Cesare Parodi, Magistratura indipendente
-‘Revenge porn: quando la vendetta viene servita sul web’ di Vanessa Pastore, Salvis Juribus
-‘Il fenomeno del revenge porn’ di Salvatore Raso, Filodiritto
-‘Codice rosso: il nuovo reato di revenge porn’ di Federica Malvani, Salvis Juribus
-‘Manuale di Diritto Penale’ di Marinucci-Dolcini-Gatta, Giuffrè Francis Lefebvre
-‘Il caso Tiziana Cantone, i social network e la web reputation’ di Salvatore D’Angelo, Diritto.it
– Ordinanza del Tribunale di Napoli Nord, seconda sezione civile, del 03/11/2016
-‘Tiziana Cantone, il Tribunale di Napoli: Facebook doveva rimuovere i video’ di F.Q., Il Fatto Quotidiano