SCAGLIONE S.STEFANO DELLA CINTA DEL SEC. XIX
di Giampaolo Milzi
– ANCONA – Che l’Ancona “di sopra” nasconda da secoli e secoli un’Ancona “di sotto” affascinante, misteriosa e in parte ancora inesplorata non è un mistero. Un’intricata matassa di chilometri di gallerie, cunicoli, slarghi, locali, cisterne realizzati per uso civile (per lo più approvigionamento d’acqua) e militare. Che ancora riserva sorprese. L’ultima, sostanzialmente inedita, ovvero un ampio tratto ipogeo parte di uno dei cosiddetti Scaglioni di Santo Stefano, abbiamo il piacere di presentarvela in esclusiva. Ambienti in serie, di ex uso militare, appunto, realizzati nell’area sottorrenaea nella parte di declivio che sale da via Redipuglia a via Venero. Quattro ambienti a prova di bombe e proiettili di alto calibro, miracolosamente conservatisi intatti, parte della nuova cinta muraria fortificata realizzata in poco tempo dal 1862 che scendeva dal Forte Cardeto fino a piazza Cavour (dove sorgeva l’omonima e architettonicamente elegante porta d’acceso alla città) per poi arrampicarsi fino alla Lunetta di Santo Stefano, circondando e proteggendo la città a est e sudest.
Entrare per una visita in questa struttura possente e intrigante si è rivelato un vertiginoso, stupefacente salto nello storico passato del capoluogo marchigiano. Guidati dall’amico e collega giornalista anconetano Marco Benedettelli, abbiamo individuato l’accesso, sul lato destro di via Redipuglia, superata Villa Almagià: esattamente nel punto del tratto d’asfalto distante poche decine di metri dalla sua confluenza nello spiazzo sopra la galleria del Risorgimento; in quel punto, segnato dalla presenza di un cartello stradale a specchio, si eleva un muretto in mattoncini, accanto a un cancelletto che conduce al condominio privato che ha l’ingresso principale in via Veneto 19. Sopra il muretto (in un fazzoletto di terra anch’esso privato) ecco la sezione della cinta fortificata ottocentesca, che ingloba un portoncino di legno fradicio e malandato appena socchiuso da una sbarra di ferro arrugginito priva di lucchetto.
I primi passi nel buio, un corridoio di circa 7 metri, ed ecco la prima stanza, poi la seconda, la terza e l’ultima. Tutte collegate fra loro da alcuni stretti passaggi a gradini con volta a botte. A descriverle meglio di noi, nei dettagli, è il geologo Maurizio Mainiero: “Sono generalmente in buono stato di conservazione, misurano circa 3 metri per 4, con soffitto voltato di altezza massima intorno ai 4 metri, dotate di ampi finestroni sul lato est – nordest (quello in parte seminterratto). Costruite interamente in laterizio e pietra, il loro sviluppo totale è di circa 76 metri quadri”. Mainiero ha avuto il privilegio di compiere un sopralluogo nel sito su incarico del Comune quando, tra il 2009 e il 2010, monitorò l’ampia area in gran parte edificata sopra la galleria del Risorgimento per individuare l’origine delle croniche infiltrazioni d’acqua di cui era vittima il tunnel stradale. Ma di acqua in queste quattro stanze non vi è traccia. Se non in riferimento ad una conduttura di acqua potabile, nella seconda stanza dall’ingresso, proveniente dalla centrale di Borgo Rodi, protetta da un muro in laterizio di fattura recente. Per il resto, qualche fenditura lungo le pareti che non ne intacca però la stabilità.
Tanta la polvere. E poi segni di presenze giocose negli anni ’80, quando gli unici depositari del segreto di questa parte underground di uno degli Scaglioni di Santo Stefano erano i ragazzini di un’allegra banda di strada. L’avevano eletta a loro personale rifugio, animato da chiacchiere, scherzi, fantasie e sogni. Lungo i pavimenti un vecchio giornale, un quadro, una rampa in legno per skateboard. E ancora. Un seggiolone e un passeggino per bimbi, un tavolo, alcune sedie, una vecchia cassapanca e una rete per letto sfondata. Testimonianze, queste ultime, di un uso cantina dei locali da parte dei condomini. Un uso cessato da molti anni. Ma non ci sono rifiuti, né giacigli di fortuna. Assenti altri indizi di estemporanei bivacchi, di balorde o disperate frequentazioni. A riprova che nemmeno clochard o senza fissa di dimora hanno mai saputo di questo occulto rifugio ipogeo. L’assoluta mancanza di segni lungo le pareti e del benché minimo reperto legati alla originaria funzione militare, e la notizia contenuta nel saggio “Ancona piazzaforte del Regno d’Italia”, scritto dallo storico Glauco Luchetti, secondo cui tutta la cinta muraria con ambienti e strutture connesse fu interamente dismessa nel 1905, fanno ipotizzare con una certa fondatezza che le quattro sale dello Scaglione Santo Stefano qui descritte non siano state più frequentate da soldati. Né da quelli italiani durante la prima guerra mondiale, né da quelli italiani e tedeschi durante la seconda. Secondo voci ricorrenti fra i residenti molto anziani della zona, sarebbero stati invece i partigiani dei Gap – nel periodo 8 settembre 1943 – 18 luglio 1944 (quest’ultima è la data della liberazione di Ancona dai nazifascisti) ad utilizzare le quattro stanze nascoste dello Scaglione tra via Redipuglia e via Veneto come nascondiglio e deposito di armi.
La struttura comprensiva delle stanze, come detto, ha un percorso in salita, che supera dall’ingresso alla parte terminale un dislivello di 4,93 metri. Già, la parte terminale. In fondo all’ultima stanza, i gradini portano ad un altro passaggio, ostruito con pietre, che celano un muro in mattoni. Passaggio presumibilmente chiuso quando venne realizzata via Veneto. In quell’occasione furono effettuati ampi sbancamenti di terreno e fu demolito quasi tutto il tratto di prolungamento dello Scaglione Santo Stefano che andava ad innestarsi nel bastione della Lunetta che confina con l’ampia scarpata in salita del Parco del Pincio. Un tratto, va ribadito, non spazzato via completamente. Tanto che proprio su via Veneto si affaccia la sezione tagliata di netto della citata cinta fortificata. Ciò avviene, procedendo in salita per la via, in un punto poco distante dall’incrocio con via Rovereto. E proprio di fronte al Bastione della Lunetta dove si allacciava la “rete” degli Scaglioni Santo Stefano. Affacciandosi da lì verso il basso si può vedere una notevole porzione superstite della cinta fortificata. Che scende lungo l’area verde – in parte occupata da giardini, tra gli edifici del condominio di via Veneto 19 e quelli del condominio di via Redipuglia 27 – sotto la quale si snodano le quattro sale che abbiamo descritto. Seguendo la stessa linea direzionale in pendio, tornando nel punto di via Redipuglia dove si accede ai quattro ambienti sotterranei dello Scaglione, se si volge lo sguardo a sinistra ecco un altro tratto di muro ottocentesco spingersi verso la sottostante via Oslavia (esattamente tra gli edifici ai numeri civici 18 e 20). Sotto quel tratto esistono altre tre stanze di servizio, inesplorate anche perché molto probabilmente ormai prive di ingressi.
L’importanza, a livello di testimonianza storico-architettonica, della struttura di servizio alle mura ancora accessibile (ri)scoperta da Urlo sta quindi – anche e soprattutto – nella sua probabilissima unicità. Lo conferma il saggio già menzionato di Glauco Luchetti (edito nel 1990 da Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, Studi storico-militari nel 1990), che nella parte dedicata a ciò che resta degli Scaglioni di Santo Stefano cita, appunto, solo “i locali seminterrati, con ampie aperture verso l’esterno delle mura, ubicati tra i fabbricati di via Veneto 19 e via Redipuglia 27” (oltre a quelli di via Oslavia). Locali che Luchetti definisce col nome tecnico-militare di “gallerie di scarpa”. Ricoperte da “tratti terrapienati” della cinta muraria di un “tracciato pressoché rettilineo (Porta Cavour-Lunetta, ndr.), con presenza di riseghe (arretramenti della faccia esterna o interna dei muri, ndr.) necessarie per il fiancheggiamento vicino” protetto da un fossato. “L’esame di foto aeree risalenti al 1957 ed immagini d’epoca – si legge ancora nel saggio – confermano che al disopra della galleria del Risorgimento erano presenti terrapieni a ridosso della cinta ottocentesca la cui difesa era affidata a delle gallerie di scarpa laddove la cinta era terrapienata”. Quanto ad eventuali altri resti del complesso strutturale della cinta difensiva cittadina ottocentesca, oltre ai tratti di mura e alle fortificazioni presenti sul colle Cardeto, abbiamo chiesto chiarimenti a Claudio Bruschi, anconetano,
autore di pubblicazioni su aspetti di carattere militare della città, tra cui “Giuseppe Morando. Artefice del sistema difensivo di Ancona piazzaforte militare 1860/1868″: “Sono state identificate testimonianze sotterranee nell’area dell’ex ospedale Umberto I, dagli accessi sbarrati, così come risultano murati gli accessi alle gallerie di scarpa degli Scaglioni di San Lorenzo, quelli che salivano da piazza Cavour al Cardeto. Infine, vicino a piazza Cavour, in via Vecchini, esistono le parti residuali di quattro locali, un tempo adibiti a deposito militare, inglobati dopo la seconda guerra mondiale nel palazzo sede del Provveditorato alle opere pubbliche. Quei locali, parte della cinta difensiva, si trovavano sotto un terrapieno su cui era piazzata una postazione di artiglieria. Terrapieno e postazione sono stati cancellati durante la costruzione del nuovo edificio, i quattro locali, in parte demoliti e ridotti in altezza, sono stati riadattati ad archivio del Provveditorato”
E proprio a Bruschi ci siamo rivolti per sapere a chi appartenga, oggi, a distanza di un secolo dalla dismissione da parte del Demanio militare, le gallerie di scarpa del sito tra via Redipuglia e via Veneto. “Stando alle indicazioni del Catasto quei resti di uno degli Scaglioni di Santo Stefano sono proprietà privata della signora Maia Ida Catagna coniugata Marchesi, che li ha ereditati nel 1998”. E, aggiungiamo noi, proprietaria di un appartamento del condominio di via Veneto 17 con ingresso secondario dotato di cancelletto in via Redipuglia.
Questo sorprendente sopralluogo-inchiesta di Urlo non può concludersi se non con una riflessione e una speranza. Vista l’alta valenza storico-architettonica e verificate le buone condizioni di stabilità e agibilità degli ambienti ampi 76 metri quadri del residuale Scaglione di Santo Stefano, e considerato il fatto che gli stessi da anni non vengono utilizzati dalla proprietaria, sarebbe auspicabile che la Soprintendenza per i beni architettonici della Marche (che li ha sottoposti a vincolo e tutela) si adoperi affinché questa straordinaria “pietra della memoria” anconetana venga restituita in qualche modo alla pubblica fruibilità. Magari, in accordo con la proprietaria privata, le quattro sale interconnesse potrebbero essere concesse in uso o affitto ad associazioni culturali, per ospitare mostre e altri eventi artistico-culturali.
(tratto da Urlo – mensile di resistenza giovanile)