LA COMUNITÀ AFROAMERICANA PROTESTA: “LA VITA DEI NERI CONTA”
di Barbara Fuggiano (praticante avvocato)
9 agosto 2014, Ferguson (Missouri): Michael Brown di 18 anni, disarmato, viene ucciso, apparentemente senza un motivo, da un poliziotto durante un controllo. Alcuni testimoni dichiarano che il ragazzo è stato freddato mentre aveva le mani alzate, altri di aver assistito ad una colluttazione tra i due, all’esito della quale il poliziotto riportava anche ferite. Mentre si avvia un’inchiesta per far luce sulle responsabilità dell’agente, le strade di Ferguson si animano per più di una settimana; la popolazione è in rivolta per quello che ritiene l’ennesimo atto di discriminazione nei confronti della comunità afroamericana da parte delle Forze dell’Ordine “bianche”. E’ intervenuto persino Obama per ricordare che “siamo tutti parte di un’unica famiglia, quella americana”, cercando di calmare gli animi dei civili che, per protesta, hanno lanciato per le strade molotov.
24 novembre 2014: Darren Wilson, 28 anni, è l’agente che non viene incriminato per la morte di Michael, in seguito al verdetto del Gran Jury composto da tre neri e nove bianchi. L’indignazione e la rabbia della comunità nera di Ferguson si scatenano ancor più che in agosto: bottiglie molotov, lancio di pietre e devastazione delle strade e dei negozi. La polizia risponde con lacrimogeni, proiettili di gomma e numerosi arresti. Obama interviene nuovamente per cercare di riportare la calma. La protesta prende di mira la composizione del Grand Jury “bianco” e il verdetto, adottato – fa presente il P.M. McCulloch – all’esito dell’escussione di oltre 60 testimoni, dell’esame dei referti autoptici e di ogni altra possibile prova perché il compito del Grand Jury è quello di “separare i fatti dalla fiction” (per usare le stesse parole del P.M.). Sin da subito i legali dei Brown si sono opposti all’impostazione che l’accusa ha dato al procedimento, che sembrava già profilarsi ingiusto.
La situazione a Ferguson, nei giorni successivi, precipita, al punto che, per sicurezza, le scuole vengono chiuse: un poliziotto viene colpito ad un braccio da un proiettile, circa 150 colpi da arma da fuoco sono esplosi contro le Forze dell’Ordine intervenute per arginare la rivolta civile, una dozzina di edifici e due auto della Polizia sono stati incendiati, il negozio nel quale pare che Michael Brown avesse rubato una scatola di sigari prima di essere fermato (e ucciso) è stato saccheggiato.
A Ferguson e in altre principali città degli Stati Uniti, tra cui New York, Los Angeles, Boston, Seattle, Chicago, Philadelphia, la protesta violenta finisce per sporcare anche quella pacifica di coloro che hanno sfilato con le mani in alto urlando lo slogan “Hands up, don’t shoot” per ricordare quello che – stando ad alcuni testimoni diretti – avrebbe detto Brown prima di essere colpito.
17 luglio 2014, New York. Un video che ha fatto il giro del mondo per la brutalità del contenuto: Eric Garner, 43enne afroamericano obeso e asmatico, padre di sei bambini, viene fermato da tre poliziotti per presunto contrabbando di sigarette e, durante una discussione verbale più o meno accesa, l’italoamericano Daniel Pantaleo gli si scaglia alle spalle prendendolo per il collo, trascinandolo a terra e continuando a schiacciarlo, con una tecnica tipica delle arti marziali e vietata alla Polizia di NY. Eric perde conoscenza e dopo poco muore. Persino il medico legale conclude che si sia trattato di omicidio per soffocamento, a causa della pressione esercitata sul collo e sulle vie respiratorie.
3 dicembre 2014: il Grand Jury ha deciso di non procedere con incriminazioni contro Pantaleo, dal momento che Garner resisteva all’arresto. I mesi scorsi già diverse erano state le proteste che ricollegavano il caso Ferguson al caso Garner, adesso che anche l’epilogo è lo stesso si teme il peggio. Diversi manifestanti hanno protestato, bloccato il traffico sdraiandosi per terra, urlando “Non riesco a respirare” – le ultime parole pronunciate da Eric – e fingendosi morti, sia a New York che in altre città; centinaia di agenti sono intervenuti per ristabilire l’ordine pubblico, arrestando alcune persone; una marcia nazionale verso Washington è stata indetta per il 13 dicembre, per gridare la difesa dei diritti civili e umani contro le violenze della polizia.
2 dicembre 2014, Phoenix (Arizona). Rumain Brisbon, 34enne afroamericano, anche lui disarmato, viene ucciso da un agente in servizio, dopo un inseguimento e un fermo per spaccio di droga. I colpi di pistola pare siano dovuti al fatto che il poliziotto credeva che il sospettato avesse un’arma in tasca e fosse pronto ad usarla, in realtà si trattava solo di una busta di medicinali. Il clima, già incandescente per le mancate incriminazioni nei casi Ferguson e Garner, si fa ancora più teso.
23 novembre 2014, Cleveland (Ohio). E’ forse l’episodio più triste. Tamir Rice, 12 anni, si diverte con una pistola giocattolo in un parco deserto. Un uomo, preoccupato, chiama il 911 e chiede che la Polizia intervenga perché un bambino nero ha in mano un’arma, non sa se “vera o finta”. Una pattuglia sopraggiunge, l’auto si ferma a pochi metri dal ragazzino, i due agenti gli intimano per tre volte di alzare le mani, Tamir per giocare si porta le mani alla cintura, verso l’arma giocattolo e in meno di due secondi è colpito da un proiettile allo stomaco; la lesione gli è lentale e muore dopo qualche ora in ospedale. Si tratta di un episodio ripreso dalle telecamere di videosorveglianza e che, seppur diverso dai due precedenti, ha acceso gli animi e alimentato le tensioni razziali negli Stati Uniti, soprattutto nei giorni in cui si attendeva il verdetto del Grand Jury sul caso Ferguson.
Il tema è molto delicato e può spaventare, ma la domanda sorge spontanea: la violenza può tingersi di discriminazione razziale? Le modalità con cui molti manifestanti afroamericani hanno espresso il proprio dissenso per gli eclatanti casi di abuso della propria posizione da parte delle Forze dell’Ordine e per le ingiuste decisioni non fanno che dimostrare che la violenza non ha colore.
Il razzismo è una brutta storia, una vera piaga sociale e a nulla serve nasconderlo. Esisterà sempre fintantoché esisteranno i pregiudizi e la paura delle culture diverse dalla propria. Rimango sempre molto colpita dalla solidarietà che la comunità dimostra in alcuni casi, così come è stato, in ambito “nostrano”, per i casi di Cucchi e Aldrovandi, solo per citare i più noti. Ma le proteste hanno un limite, non possono abbassarsi allo stesso livello dell’ingiustizia lamentata.
A far comprendere, forse, la pericolosità tanto delle reazioni di quanti hanno lanciato molotov o dato vita ad incendi quanto delle facili stigmatizzazioni, ci pensa lo scatto di Johnny Nguyen (in alto riproposto) che racchiude l’abbraccio tra un poliziotto bianco e un bambino nero, il quale, in lacrime per la brutalità dei poliziotti contro gli afroamericani, era in strada con al collo il cartello “Free Hugs” quando l’agente gli si è avvicinato per consolarlo.
E’ vero ed innegabile che in America l’uso delle armi è più diffuso, anche tra i civili, e che la risposta delle Forze dell’Ordine è più violenta, come dimostra il caso Rice, nel quale i poliziotti non hanno atteso molto tempo prima di sparare colpi, tuttavia non (sempre) si tratta di un problema razziale.
I tre episodi di cronaca riportati mi spingono a riflettere, piuttosto, sui rimedi necessari per colmare queste carenze strutturali (e culturali) della Polizia e penso soprattutto ai più giovani che, accecati dalla divisa e dal potere, sono forse più portati a compiere errori o leggerezze (con conseguenze spaventose), come dimostra il fatto che gli agenti coinvolti nei casi Brown, Garner e Rice non hanno più di 30 anni. Un cambiamento è necessario, se non altro perché scene come queste alimentano anche la sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni.
E l’Obama che l’1 dicembre ha chiesto di investire 263 milioni di dollari per mettere delle telecamere sulle divise dei poliziotti per responsabilizzarli e creare un deterrente lo sa bene. Si tratta di una proposta simile a quella avanzata in Italia, da anni (più o meno dal G8 di Genova del 2001, i cui black block, a dirla tutta, ricordano alcuni odierni manifestanti statunitensi) e da più parti, di inserire nei caschi della Polizia il numero identificativo di ciascun agente, anche per sostituire l’idea della “Polizia violenta” con quella del “singolo agente violento”.
Intanto, la famiglia di Michael Brown, dalla quale ci si sarebbe attesi la risposta più dura al verdetto, ha diffuso un comunicato stampa invitando la comunità a incanalare la frustrazione “in modi che spingano ad un cambiamento positivo” perché un sistema che ha permesso tutto quello che è accaduto è un sistema malato, da riparare “insieme” e non da fomentare. Altrimenti, il confine tra l’essere vittima e il diventare carnefice si fa molto sottile.