di Dott.ssa LAURA FRANCESCHI (Scienze e Tecnologie dell’ambiente e del territorio Università Bicocca di Milano)*
* articolo pubblicato anche su iWrite
Lo scorso 9 agosto è stato diffuso dall’IPCC il documento “Climate Change 2021: The Physical Science Basis”. Tra i primi grafici che hanno accompagnato la sua presentazione ne è stato mostrato uno che illustra come la temperatura media globale del pianeta, nel decennio 2011-2020, sia stata di 1.09°C superiore a quella del periodo 1850-1900, con un riscaldamento più accentuato sulle terre emerse rispetto all’oceano. Il trend di ascesa delle temperature sembra ormai inarrestabile e presto sarà necessario fare i conti con le conseguenze ambientali, economiche e sociali che ne derivano. Tra queste ve ne è una ancora poco discussa: la migrazione climatica.
Le migrazioni climatiche del futuro
Ma cosa spinge i migranti climatici a lasciare i propri luoghi di origine? In realtà non vi è una sola motivazione, ma si ha a che fare con una concomitanza di diversi fattori: l’aumento della siccità, la diminuzione della produttività agricola e l’innalzamento del livello del mare. Quella appena fatta è un’elencazione, forse, striminzita ma dalla quale emerge con chiara evidenza e altrettanta drammaticità un fattore non immediatamente percepibile dalle narrazioni sulle ragioni dell’immigrazione, vale a dire come le variazioni climatiche impattino, attraverso l’influenza sui mezzi di sussistenza e sulla vivibilità dei luoghi, sulla migrazione delle popolazioni.
Secondo il quotidiano La Repubblica, degli 80 milioni di profughi del mondo, circa 25 sono migranti climaticimentre, secondo l’ultimo rapporto Groundswell della Banca mondiale, sono oltre 216 milioni le persone che potrebbero spostarsi all’interno dei loro paesi entro il 2050 in sei diverse regioni del mondo.
In particolare, i dati forniti dalle loro proiezioni parlerebbero di:
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86 milioni di migranti climatici interni per quel che riguarda l’Africa subsahariana
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49 milioni per la regione dell’Asia orientale e del Pacifico
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40 milioni per l’Asia meridionale
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19 milioni per il Nord Africa
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17 milioni per l’America Latina
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5 milioni per l’Europa orientale e Asia centrale.
Secondo gli esperti, i flussi migratori aumenteranno in maniera più o meno costante ancora per qualche decennio per poi accelerare rapidamente nella seconda metà del secolo. Sebbene i numeri parlino chiaramente di un problema che prima di tutto si presenta all’interno dei paesi che subiscono il cambiamento climatico, anziché all’interno di quelli che ne sono stati storicamente paesi che spesso, in maniera del tutto discutibile, continuano a tapparsi gli occhi innanzi all’evidenza.
Il diritto su carta
Con queste premesse non sembra azzardato affermare che le enormi cifre di cui parlano gli esperti sono un importante campanello di allarme che non può essere ignorato; è necessario iniziare a lavorare fin da ora a un piano sociale, politico e soprattutto normativo per non arrivare impreparati al 2050. Un primo passo potrebbe essere fatto proprio sul piano politico con la concessione dello status di rifugiati per i migranti climatici.
La concezione di rifugiato (o di titolare di diritto d’asilo), il cui riconoscimento di stato garantisce un’elevata tutela all’individuo in quanto obbliga lo Stato destinatario della migrazione ad accogliere il rifugiato e a tutelarne la salute, è stata pensata all’indomani della II Seconda guerra mondiale e, nel tempo, ha subito delle significative evoluzioni.
Secondo la Convenzione di Ginevra, va riconosciuto lo status di rifugiato a ogni persona che si sta avvalendo della protezione di un Paese diverso da quello di origine perché, in questo, ritiene di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale o per le sue opinioni politiche. La definizione fu poi sostanzialmente confermata nel Protocollo delle Nazioni Unite relativo ai rifugiati del 1967, ampliata, nel 1969, a quelli che sono costretti a lasciare il luogo di residenza abituale a causa di aggressioni esterne, occupazione militare, invasione straniera o eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico, e quindi, nel 1984 (delineando un concetto che sarà fatto proprio, a partire dal 2011, dallo stesso Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’UNHCR), a chi, trovandosi fuori dal proprio paese, non può farvi ritorno a causa di minacce gravi e indiscriminate alla vita, all’integrità fisica o alla libertà derivanti da violenze generalizzate o eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico.
Il fatto che sia difficile ricomprendere sotto questa definizione i migranti climatici, non può destare sorpresa, essendo le cause della migrazione sempre imputate a condotte umane, piuttosto che a eventi naturali.
Sessant’anni dopo la conclusione dalla Seconda guerra mondiale, però, i motivi che spingono le persone a migrare sono cambiati radicalmente e, per far fonte alle nuove esigenze, nel 2004, l’Europa ha introdotto la direttiva n. 2004/83/CEin materia di protezione internazionale. Per la prima volta si parla di protezione sussidiaria, che si va quindi ad aggiungere all’ipotesi di rifugiato, ampliando le possibilità di tutela per i migranti “umanitari”. Infatti, la protezione sussidiaria non riguarda più solamente le situazioni di persecuzione individuale riconosciute meritevoli del diritto d’asilo, ma opera a protezione del cittadino straniero nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno e che dunque non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese. Un’ipotesi, come detto, formulata in maniera più ampia, più elastica, più onnicomprensiva degli specifici casi previsti dal diritto internazionale.
A una prima lettura, dunque, si potrebbe pensare che questo principio possa tutelare anche i migranti climatici, ma non è così. Infatti, con “un rischio effettivo di subire un grave danno” si intende: la condanna a morte; la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine e la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Alla luce di ciò si deve concludere che il migrante climatico sia destinato a rimanere ancora fuori della porta.
Uno spiraglio sarebbe potuto essere quello del concetto di “protezione umanitaria” che in Italia si è aggiunto allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria di derivazione internazionale e europea, fino al 2018. La protezione umanitaria fu introdotta con la legge Turco Napolitano e prevedeva che il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno non potessero essere adottati, pur non sussistendo i presupposti dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, se ricorrevano «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano». Poteva, forse, questo bastare a tutelare i migranti climatici? Non precisamente. Ma c’è da rilevare che la dicitura “seri motivi di carattere umanitario”, non facendo riferimento a accadimenti specifici, ben si prestava a una flessibile interpretazione in grado di adattarsi a diverse circostanze.
Il diritto nelle corti
Sebbene i dati visti prima dimostrino la necessità di agire velocemente, la legge scritta presenta ancora una forte reticenza nello scegliere se e quale debba essere la protezione da accordare ai migranti climatici. Fortunatamente diversa (ma non troppo) è l’atmosfera presente nelle corti, dove i giudici sembrerebbero inclini all’elastica interpretazione della normativa a favore di una apertura verso il riconoscimento dello status di migrante ambientale.
Tali affermazioni sono sostenute da ben tre pronunce della giurisprudenza internazionale e italiana. Il primo è noto come “caso Teitiota” e riconducibile alla sentenza 2728/2016, in cui per la prima volta il Comitato Onu ha riconosciuto, a un migrante climatico, il diritto a non essere respinto. Sebbene non vi sia una vera e propria affermazione dello status di rifugiato climatico, viene comunque riconosciuta al migrante una forma di protezioneche, per quanto non totalmente definita, ne impedisce comunque il rimpatrio.
In un contesto simile si inserisce il secondo caso, ossia quello riguardante la richiesta di protezione umanitaria fatta all’Italia da un cittadino nigeriano (oggetto della sentenza della Corte di Cassazione n. 5022/2021). Sebbene le corti inferiori avessero negato tale richiesta, la Corte di Cassazione ha successivamente stabilito che la terra di origine del richiedente protezione versasse in una grave condizione di dissesto ambientale, tanto da poter addirittura riconoscere una compromissione del diritto alla vita e ad un’esistenza dignitosa. Proprio quest’ultima motivazione permette al richiedente di vedersi riconosciuta la concessione della protezione umanitaria, garantendo, per la prima volta in Italia, un primordio di protezione a un migrante climatico. Purtroppo, almeno per ora, questa vicenda sembrerebbe destinata a restare un unicum essendo legata alla definizione di protezione umanitaria che dal 2018 non esiste più, essendo stata abolita – o meglio, frammentata – dalle scelte di politica legislativa del tempo.
Un germoglio di speranza, però, sembra venire dalla più recente sentenza n. 25094/2021, sempre della Corte di Cassazione. In questo caso, a richiedere la protezione umanitaria è un cittadino bengalese che aveva perso precedentemente la propria abitazione a causa di un’inondazione. La sentenza si conclude con il respingimento della richiesta in quanto la corte ha decretato che non vi erano gli estremi per garantire l’accoglienza in Italia al richiedente, ma l’importanza, e la singolarità della vicenda giuridica, risiede nel fatto che per la prima (e per ora ancora unica) volta viene utilizzato il termine “rifugiato ambientale” per riferirsi a qualcuno che ha dovuto abbandonare la propria terra a causa delle conseguenze del cambiamento climatico. I più fiduciosi guardano all’impiego di questa terminologia come a un timido riconoscimento giuridico di questa figura.
Migranti climatici: gli invisibili del diritto
Sicuramente, nell’immediato, è difficile immaginare un arginamento delle migrazioni ambientali, visto che lo sconvolgimento dei sistemi climatici è a un punto di non ritorno e non si riuscirebbe a cambiarne la rotta neppure se si entrasse in azione a partire già da domani mattina. Se a ciò si aggiunge la lentezza con cui si evolvono le fonti del diritto, il rischio è quello di lasciare, entro il 2050, milioni di persone senza alcun tipo di protezione, né materiale né normativa. Proprio per questo, alcuni studenti dell’università di Milano-Bicocca hanno deciso di alzare la voce e lo hanno fatto lanciando una petizione affinché “la normativa italiana venga modificata, andando a concedere lo stato di rifugiato anche ai migranti climatici al fine di garantire loro fin da subito la speranza per un futuro più sicuro e dignitoso”.