L’ultima puntata di quest’anno della nostra rubrica “Rock & Diritto” è dedicata a ripercorrere le canzoni più belle che ci hanno fatto compagnia in questo lungo anno con l’augurio che anche il prossimo possa essere accompagnato ogni giorno dalle musiche che più sentiamo nostre, quelle che ci regalano emozioni già dalla prima nota, quelle che risvegliano ricordi, quelle che più semplicemente ci fanno sentire vivi, a volte tristi, altre volte malinconici, altre volte felici ma sempre e comunque vivi … Buon Anno a tutti i lettori di questa rubrica e del nostro Fatto & Diritto!
Il viaggio inizia con il meraviglioso brano dei Depeche Mode, Enjoy the Silence (Goditi il silenzio) composto da Martin Lee Gore e registrato nel 1989 (leggi qui).
Nella prima settimana il brano estratto dall’album Violator vende più di un milione di copie; un successo mondiale per il gruppo britannico che si conferma a livello internazionale. L’idea originaria di Martin Lee Gore è quella di una dolce ballata in do minore tanto che la versione demo, cantata dallo sesso Gore, è suonata soltanto con l’harmonium, strumento musicale azionato con una tastiera e che spesso viene usato per la musica sacra essendo dotato di pochi registri. Alan Wilder crea però una nuova versione del brano arricchita anche dalla voce di David Gahan ed il pezzo rimane talmente affascinante da essere ripreso nel tempo da altre band, ma anche dallo stesso gruppo di Dave Gahan che ne registra più versioni dopo la prima.
Un sorta di inno alla pace e serenità il cui video originale (diretto dal fotografo e regista olandese Anton Corbijin) è davvero un capolavoro: ci mostra proprio Gahan che, vestito da re e con in mano una sdraio da mare, si avventura per il mondo attraversando vari luoghi fermandosi di tanto in tanto ad ammirare i posti in cui si trova fino ad arrivare ad ammirare lo spettacolo delle Alpi. L’immagine di questo re sembra evocare quella del Piccolo Principe di Antoine de Saint Exupery, chi non la ricorda. Una sorta di ricerca di pace per un re forse stanco di parole e potere e bisognoso solo di silenzio. Quel silenzio che si può “ammirare” solo stando bene con se stessi, solo con quell’equilibrio che permette di vivere, di godere e non subìre la mancanza di parole e suoni.
In realtà il gruppo non trovò geniale l’idea originale del video per questo nel 1990 ne girarono un altro sul tetto di una delle torri gemelle del World Trade Center.Solo successivamente fu ripreso anche questo video.
Nel 2004 i Depeche Mode creano anche un’altra versione della canzone, più dance il cui video rappresenta la misteriosa invasione vegetale di un grattacielo moderno e si conclude con l’immagine animata di una rosa ( la stessa rosa che si trova sulla copertina di Violator, album che in origine conteneva il singolo e che compare anche nel primo video) che si staglia sul tetto del palazzo mentre dai computer nelle stanze vengono trasmessi filmati della band live.
Un riff di chitarra e l’accompagnamento lieve di percussioni sembrano prenderci per mano ed accompagnarci in un’atmosfera calda, poetica, che trasmette serenità come a volte può fare il suono del silenzio.
Il silenzio è di nuovo protagonista in un altro pezzo indimenticabile, che ha fatto la storia della musica, parlo del brano “The sound of silence”. (qui).
Nata originariamente come pezzo acustico per l’album del 1964 “Wednesday Morning , 3 AM” del mitico due statunitense Simon and Garfunkel ed insierita nel 1966 dell’omonimo album, questa canzone è forse la dimostrazione di come la musica può avvicinarsi veramente alle forme più alte di poesia. Poco più di tre minuti che sono entrati nella storia della musica.
Intitolata all’inizio “The sounds of silence” (“i suoni del silenzio”) il titolo, poi divenne “the sound of silence” (“il suono del silenzio”). Si dice che il testo sia stato scritto dal Paul Simon in seguito all’assassinio del Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy avvenuto il 22 novembre 1963, una sorta di rappresentazione dello sgomento del popolo americano per la tragica ed improvvisa scomparsa di un presidente molto amato, considerato una guida carismatica per un intero popolo.Garfunkel invece in alcune occasioni ha sottolineato che il tema dominante della canzone è l’incapacità dell’uomo di comunicare con il mondo, quel mondo di cui fa parte insieme a milioni di altri simili ma con cui a volte non riesce a comunicare isolandosi in un silenzio assordante, a volte molto più rumoroso di tante parole. (“People talking without speaking People hearing without listening” “Persone che parlavano senza dire nulla persone che ascoltavano senza capire”.)
Un ossimoro nel titolo che riesce in poche parole a dare un’immagine efficace, forte, triste, quasi di rassegnazione.
Forse il significato è questo, forse è anche questo oltre a ciò che ognuno di noi riesce a leggervi ascoltandola. Quello che è certo è che la parola “silenzio” ricorre più e più volte lungo tutto il brano, come se la ripetizione servisse paradossalmente a rompere quel muro di indifferenza che viene descritta.
La chitarra acustica accompagna tutto il brano cantato dal duo. Se la versione originale è solo acustica nel 1965 la canzone viene pubblicata come singolo con l’aggiunta della batteria, del basso e della chitarra . Chi ama questa canzone non può non ricordala all’inizio ed alla fine di un capolavoro del cinema come il film “Il Laureato” del 1967 con il magnifico Dustin Hoffmann.
Due opere d’arte che unite insieme creano qualcosa che lascia senza fiato.
Continua il viaggio tra note e le emozioni …A volte alcuni brani musicali sono capaci di farti letteralmente “innamorare” in un attimo e poi in mille attimi ancora ogni volta che li ascolti: parlo di Somewhere over the rainbow (“Da qualche parte oltre l’arcobaleno”), conosciuta anche come Over the rainbow.
Credo che una canzone non possa essere giudicata solo per il testo, la metrica, i tecnicismi, la melodia ma per quell’insieme di sensazioni che è capace di regalare a chi l’ascolta e, se questa è l’unità di misura, non a caso Somewhere over the rainbow è stata eletta dai discografici statunitensi la migliore canzone del ventesimo secolo.
Tantissime versioni sono seguite dopo quella originale scritta da Harold Arlen con i testi di E.Y. Harburg e cantata da Judy Garland per il film “Il mago di Oz” del 1939; vinse l’oscar come migliore canzone originale e proprio il legame con la cantante Gardland ed il messaggio di speranza contenuto nel testo a far si che il brano sia divenuto presto anche uno degli inni dei movimenti di liberazione omosessuale.
Tante le versioni di questo fortunato brano (da quello di Frank Sinatra a quello di James Blunt, da quello dei Deep Purple a quello dei Ramones a quello di Nick Cave, Areta Franklin, Ray Charles, Eric Clapton) ma quella cui sono maggiormente legata è la straordinaria ed emozionante interpretazione del cantante hawaiano Israel Kamakawiwo’ole che nel 1993 ha realizzato uno stupendo medley con il brano “What a Wonderful World” (scritta da Bob Thiele e George David Weiss ed interpretata per la prima volta da Louis Armstrong) e l’ha interpretata con il solo accompagnamento di uno strumento musicale particolarissimo e dal suono magico chiamato ukulele.
Un “gigante buono” dalla voce straordinariamente dolce, magnetica, quasi ipnotizzante che, innamorato delle sue origini e della sua terra, è riuscito pur nella sua breve vita (morì nel 1997 a soli 38 anni per problemi respiratori dovuti ad una grave forma di obesità di cui soffrì soprattutto negli ultimi anni) a trasmettere soprattutto con questa canzone l’ottimismo, la felicità, la serenità, forse legati alla bellissima terra in cui viveva e amava e che tutti, almeno una volta, hanno sognato ad occhi aperti di vedere e vivere anche se solo per un attimo.
“Da qualche parte sopra l’arcobaleno ci sono i sogni che hai osato fare”.
Uno stimolo a non smettere mai di sognare anche e soprattutto quando sembra non arrivare mai l’arcobaleno, non smettere mai perché quando si arriverà là, da qualche parte oltre l’arcobaleno, ci saranno quei sogni che abbiamo saputo tenere e custodire, che abbiamo saputo non lasciare scivolare via. Spesso ci sembra di non vedere mai l’orizzonte ma è perché siamo in mezzo ad una tempesta, è come la notte che deve sempre e comunque passare prima che arrivi il giorno, un passaggio obbligato ma sempre e comunque un passaggio e non una destinazione.
Non credo che esistano tante canzoni in grado di regalare emozioni speciali, una sorta di ballata capace di essere terapia per l’anima ed oggi voglio dedicarla, attraverso questo focus, a me stessa e a tutte quelle persone che sono ora in mezzo a qualche tempesta con l’augurio di avere la forza di non smettere di sognare.
Semmai sentirete di voler lasciare la presa, provate ad ascoltare questa canzone (qui il focus di F & D).
Ci sono brani poi che a volte sanno addirittura fermare il mondo per un attimo.
“La donna cannone “ di Francesco De Gregori è una di quelle ballate che una volta entrate nel cuore non ne escono più, di quelle che ogni volta che parole e musica riecheggiano da qualche parte il mondo si ferma … (clicca qui per rileggere).
Scritta nel 1983, già dalle prime note al pianoforte non si può non riconoscerla, cala il silenzio, il respiro si ferma ma non le emozioni che trovano invece la porta per uscire.Caratteristica di De Gregori è quella di utilizzare spesso metafore e lui stesso ha detto che “le canzoni che scrivo sono per loro natura ambigue, non si prestano a una lettura semplice … mi piace che una canzone possa essere letta in due modi, possa voler dire due cose insieme”.
E’ lo stesso cantautore a raccontare che il brano è stato ispirato dalla notizia reale dell’entrata in crisi di un circo rimasto senza uno dei numeri di maggior successo, quello della “donna cannone” appunto (artista circense paffuta lanciata da un cannone per il divertimento del pubblico), perché in fuga per seguire il suo grande amore .Ancora una volta la similitudine con il mondo della pittura mi è spontaneo … in questo brano il poeta De Gregori crea il quadro di una storia d’amore con poche pennellate cariche però di colore e di calore, senza però cadere nel rischio della banalità che spesso contraddistingue i brani che parlano di amore ed in genere di sentimenti. Protagonista dei versi è proprio la “donna cannone” che abbandonata quella corazza di fenomeno da baraccone si racconta e racconta il sogno della sua fuga per inseguire la normalità e la straordinarietà di un sentimento come l’amore, quella normalità che lei, trattata in maniera diversa perché oggetto di divertimento per il pubblico, non ha mai avuto e vissuto.
Ancora una volta provate ad ascoltarla con il cuore e con la mente ed immaginate.
Una parafrasi esplicativa del brano fatta dallo stesso De Gregori cosi la spiega: la donna cannone, piccolo mostro e piccolo artista, sceglie di morire per amore: crede di volare nell’azzurro del suo sogno d’amore, crede di poter divenire “d’oro e d’argento”, ma invece si incammina verso la morte, cioè verso un “cielo nero nero” e verso un “enorme mistero”, accompagnata in questo ultimo viaggio – un “ultimo treno” preso senza bisogno di passare da nessuna stazione – dal disprezzo e dall’indifferenza di tutti … eppure il suo sogno d’amore è più forte di tutto questo, più forte persino della morte: “e non avrò paura se non sarò bella come dici tu /… e senza ali e senza sete, e senza ali e senza rete (io e te, amore) voleremo via”
Una storia d’amore e di libertà, una dichiarazione d’amore che nella sua disarmante normalità lascia un segno indelebile nel cuore di chi la ascolta e non una volta, ma ogni volta.
Personalmente sono legata all’interpretazione meravigliosa della grande Mia Martini che forse regala al brano con la sua voce graffiante, colorata da mille sfaccettature e carica di emozioni, una chiave di lettura diversa,più struggente ma altrettanto poetica. Lei che forse, mentre cantava quella canzone, si rivedeva un po’ in quella “donna cannone” simbolo delle persone spesso emarginate e derise che gridano al mondo la voglia di essere viste e trattate come normali, senza pregiudizi ed intolleranze frutto di ignoranza e mediocrità.
Credo veramente che un grande artista rimanga tale sempre semplicemente perché ha qualcosa di diverso, che lo distingue dal resto e credo che non a caso nel sito di De Gregori si trovi pubblicata una bellissima frase “L’arte prescinde dai mezzi tecnologici, se Van Gogh avesse cambiato pennello sarebbe comunque rimasto un grande artista”.
Cercare di dare un significato ad una canzone è molto difficile cosi come cercare di darlo ad un quadro … soltanto il cuore e la testa dell’artista possono conoscerlo veramente ma credo anche che ognuno di noi possa e voglia leggerci la propria vita, le proprie esperienze e credo che in fondo la musica e l’arte servano un po’ anche a questo.
L’amore, i sentimenti, il dolore riempiono anche le note di un’altra ballata semplicemente unica, November Rain dei Guns n’ Roses (il focus).
Il brano fa parte del terzo album del gruppo, Use Your Illusion del 1991 ed è forse uno dei più conosciuti grazie anche allo strepitoso video (creato e pubblicato nel 1992, uno di più costosi nella storia della musica) che mostra Axl con la sua ex ragazza e nel quale matrimonio e morte si uniscono in mezzo ad un trionfo ed un appassire di rose rosse e bianche.
La canzone scritta dal vocalist Axl Rose è un molto lunga, all’incirca 8 minuti e 57 secondi ed è anche il brano con il più lungo assolo di chitarra. La bella, bellissima, struggente, malinconica ballata parla di una difficile storia d’amore ed il video riproduce gli inizi della storia,il matrimonio e infine il funerale della sposa, una sorta di sogno di Axl in cui lo stesso in maniera metaforica ripercorre la sua tormentata relazione. Tra le scene più storiche ci sono i due assoli memorabili della canzone: uno fuori dalla chiesa in cui Slash suona con i capelli al vento e sigaretta in bocca mentre in un’altra suona sopra il pianoforte suonato da Axl.
Ancora una volta provate ad ascoltare il brano e a guardare il video.
Tutto inizia con una scena in cui gli unici suoni sono quello del vento e del contenitore di pastiglie che Axl prende; poi lo si vede al pianoforte dentro una piccola cappella bianca che spicca sul cielo azzurro. Di pari passo con il cambiamento di cui parla la canzone nella seconda strofa si vedono dalla finestra delle nuvole che scorrono veloci nell’azzurro cielo e che sembrano preannunciare un altrettanto veloce cambiamento.
Si ritorna altrettanto repentinamente sul luogo della prima scena, ma questa volta c’è una ragazza che non riesce a dormire infastidita dal rumore della continua pioggia che scende. Seguono le prime scene di un matrimonio che presto si comprende è quello di Axl ma la situazione cambia di nuovo e si ritrovano tutti nella penombra scura di un pub dove tutto è avvolto dal fumo di sigaretta, una sorta di flash back a momenti antecedenti alle nozze in cui il video non esita però a riaccompagnarci .Axl sposa la ragazza ed il testimone Slash, dopo che per un attimo sembra non trovare le fedi, percorre la navata in uscita e alla fine del percorso parte il riff di November Rain mentre gli sposi escono dalla chiesa e salgono in macchina per avviarsi al banchetto. Slash continua a suonare mentre sullo sfondo si notano i colori di un tramonto che invece che rappresentare la fine di una bella giornata è l’introduzione della notte in cui Axl si trova a camminare da solo per una strada buia ( passando davanti ad un negozio di armi “Guns”).
Di nuovo un flash back alla festa di matrimonio durante la quale però inizia a cadere la pioggia improvvisa. La pioggia malinconica di novembre. All’improvviso la scena di un funerale. E’ morta la sposa ed il feretro viene portato fuori dalla chiesa e di nuovo inizia a piovere mentre sopraggiunge come sospinto dal vento e dalla gocce il ricordo della sposa che lancia il bouquet che da bianco si tinge di un cupo rosso e cade su una bara.
All’improvviso tutto finisce e Axl si sveglia agitato nel letto che ci riporta alla prima scena. Il video si chiude con Axl che, solo sulla tomba della moglie, si abbandona alla pioggia quasi nella speranza che l’acqua porti via il suo straziante dolore. Intanto anche il rosso dei fiori sembra sbiadire. Davvero un’opera d’arte, brano e video sono un connubio perfetto ed inscindibile che se goduti insieme riescono ad esprimere il massimo o più semplicemente emozioni vere.
Per mano vi voglio accompagnare attraverso una delle canzoni in assoluto più scolpite nella mente e nel cuore degli appassionati del rock e in genere di quelle emozioni che solo grandi artisti sono in grado di far vivere e sentire.
Credo che la musica sia veramente una forma d’arte e che anche nella musica ci siano capolavori ed artisti indimenticabili, unici. Il brano, Wish you were here (Vorrei che fossi qui) , è una perla rara inserita nell’omonimo album dei Pink Floyd del 1975 ed è il magnifico risultato della collaborazione musicale tra David Gilmor e Roger Waters (qui il nostro focus).
La versione originale di Wish you were here è contraddistinta da iniziali suoni confusi che dipingono con pennellate da maestri di altri tempi un quadro incredibilmente ipnotico, affascinante. Ascoltatela e provate ad immaginare: alcune persone in una stanza che ascoltano una vecchia radio, la frequenza viene cambiata più volte finchè non viene fermata sul discorso di un uomo ed una donna, che sembrano discutere. Il cambio di stazione alla radio continua, si sente un accenno della quarta sinfonia di Caikovskij fino ad arrivare a quella in cui si sente l’intro di Wish you were here.
Un inizio magico reso ancora più magico dal suono di una seconda chitarra che accompagna quello della prima, l’idea evocata è quella di qualcuno che in quella stanza suona il brano con una chitarra … è lo stesso David Gilmor ad eseguirlo, è cosi presente che sembra quasi di poterlo vedere. L’”opera d’arte” poco prima di chiudersi, prima del delicato suono del vento, lascia spazio ad un assolo di violino eseguito dal violinista jazz Stéphane Grappelli, ex membro del Quintette du Hot Club de France.
E’ il 1977 quando la canzone viene per la prima volta eseguita live ed è subito innamoramento per la folla, un colpo di fulmine che si ripete ogni volta che già dalle prime note dell’intro diventa riconoscibile, quelle note che danno al brano un segno distintivo,unico, come una pennellata di Van Gogh. Per dieci anni non viene più eseguito, per riascoltarlo dal vivo i fan devono aspettare il 1987. Nel 2004, Rogers Waters ed Eric Clapton eseguirono la canzone in occasione dello Tsunami Aid e l’anno successivo durante il Live 8 Waters ritorna a suonare con i suoi ex compagni a Londra per eseguire ancora una volta questo fantastico brano.
Nel 2011 la riedizione dell’album Wish You Were Here (Immersion) regala ai fan una versione inedita con protagonista il violino di Stéphane Grappelli; per chi ha nel cuore questa canzone non può che rimanere estasiato nel sentire il suono del violino che dolcemente ti accompagna nell’ascolto. Un vero capolavoro, uno di quelli che rimangono sempre e comunque nel cuore.
In tanti ritengono che Wish you were here sia dedicata, come gran parte dell’album omonimo, all’ex componente dei Pink Floyd Syd Barret (si rilegga il focus musicale https://www.fattodiritto.it/focus-rock-syd-barret-diamante-dei-pink-floyd/). Non è chiaro se questo brano e l’intero album siano nati già con l’intento di dedicarlo al caro Syd Barrett ma quello che è certo è che i testi e la musica di quasi tutte le canzoni sono impregnate di un forte senso di amicizia e a tratti anche di tristezza.
Melodia da brivido, testo semplice ma carico di significato, un pezzo di storia della musica di tutti i tempi piena di una dolcezza mista a rimpianto per una persona cara che non è riuscita a continuare nel cammino intrapreso perdendosi invece nel buio profondo della propria mente. Anche la copertina del disco Wish you were here è un’icona nella storia della discografia: due uomini non in una strada qualunque ma negli studi di registrazione della Warner Bros che si stringono la mano, uno vestito come un uomo d’affari con occhiali scuri, l’altro, chinato un po’ in avanti, quasi in segno di riverenza, forse una potenziale nascente stella della musica.
Quando penso ad un quadro di Van Gogh davanti agli occhi ho pennellate cariche e dense di colori, forti come le emozioni che ogni singola pennellata sembra portare con sé sulla tela … ho in mente un quadro su tutti “Notte stellata”… allo stesso modo quando penso ad una canzone dei Pink Floyd nella mente e nel cuore ho tante canzoni, ma una su tutte Wish you were here…
Il viaggio tra i ricordi musicali di “Rock & Diritto” si conclude con un pezzo a dir poco bellissimo, “Where the wild roses grow” (“Dove crescono le rose selvatiche“), meraviglioso brano di Nick Cave ed il gruppo The Bad Seeds realizzato nel 1995 anche con la collaborazione della cantante Kylie Minogue e contenuto nell’album Murder Ballads (Le ballate degli omicidi) (rileggi qui). Il tema delle ballate sugli omicidi richiama le canzoni sul tema di amore e morte, tipiche dell’800 per questo proprio a queste canzoni Nick Cave ha dedicato un intero album.
Gran parte di questi brani sono duetti uomo-donna, un susseguirsi di domanda – risposta per questo Cave coinvolse nel progetto diverse cantanti per il duetto, come Polly J. Harvey e Henry Lee; in questo brano ha chiamato Kylie Minogue, sua fidanzata, australiana come lui e a quel tempo non ancora famosa.Le parole e la musica dipingono con tratti cupi e malinconici il racconto di una storia d’amore e di tragedia: Elisa Day ed il suo amante sono i protagonisti, si incontrano, la straordinaria bellezza della donna incanta l’uomo che vi si perde, annega i suoi occhi in quel fascino che sa attirarlo come una meravigliosa opera d’arte attrae chi la osserva.
Ascoltando il brano l’intreccio delle vite dei protagonisti è rappresentato dal duetto tra le voci di lui e lei che sa dare vita e contorni precisi al loro incontro.Due voci profonde e calde che quasi quasi a passo di valzer si alternano e a volte si incontrano sovrapponendosi, come i due protagonisti si sono incontrati e ad un certo punto sovrapposti nella vita.
Nel bellissimo video della canzone girato dal regista e fotografo texano Rocky Schenk, Elisa Day e il suo amante sono interpretati da Kylie Minogue e Nick Cave e la location è un lago paludoso.
La canzone narra dell’omicidio della donna per mano del suo amante ed il titolo è proprio un riferimento al luogo della morte di quest’ultima, il fiume dove crescono le rose selvatiche. Una rosa portata a morire dove crescono tante altre rose, qui Elisa Day e la sua bellezza si perdono per l’ultima volta nell’abbraccio e nello sguardo dell’uomo e della sua mano che stringe la pietra che da lì a poco la ucciderà.
“Tutta la bellezza muore sempre”: con queste parole la mano di lui recide la vita e la straordinaria bellezza della donna. Non di lei si era innamorato ma della sua bellezza,della perfezione che essa incarnava, un modo forse per non perdere quella straordinarietà ma consacrarla per sempre su un altare fatto di rose selvatiche, acqua, palude e toni cupi.
Chioma nera, sguardo profondo e malinconico, tratti del volto profondamente segnati: Nick Cave, sicuramente uno dei cantautori più significativi degli anni Novanta, sembra avere già nei suoi lineamenti fisici le caratteristiche di un vero poeta maledetto, di quelli che esprimono con parole (e nel suo caso anche con la musica) il disagio di cui le loro vite sembrano impregnata fino alle ossa. Vita e morte, follia e lucidità sono i binomi che si rincorrono nella vita di Nick Cave che eternamente insoddisfatto di se stesso ha comunque continuamente ricercato pace prima tra le braccia di droga, alcool ed eccessi di ogni tipo poi, soprattutto nella fase più matura della vita, con una ricerca quasi spasmodica di una sorta di via della redenzione, di tranquillità e pace anche in quel rapporto spesso tormentato con il mondo delle donne.E’ considerato uno degli allievi migliori di Leonard Cohen e forse l’ansia quasi soffocante della ricerca di redenzione è ciò che lo avvicina di più al cantatore e poeta della solitudine Cohen.
BUON ANNO A TUTTI!
VALENTINA COPPARONI
Jeff Buckley “Hallelujah”