UN SECOLO FA L’ITALIA A UN PASSO DALLA RIVOLUZIONE
– ANCONA – di Giampaolo Milzi –
Non è un azzardo sottolinearlo: cause e significati della Settimana Rossa – la rivoluzione italiana mancata dei primi del ‘900, come molti hanno definito quelle straordinarie, eccezionali giornate – non sono stati pienamente decifrati e tramandati dalla Storia divulgativa. Sebbene sia passato un secolo. E quindi soprattutto ad Ancona, dove il 7 giugno 1914 scoccò la scintilla che in breve incendiò di moti popolari insurrezionali gran parte del Paese – va dunque l’oneroso merito di ospitare una serie di eventi che vanno bel oltre la semplice celebrazione. La pionieristica rivolta del capoluogo regionale costò la vita a tre giovani manifestanti, vittime del piombo della repressione istituzionale.
Quella domenica 7 giugno, come ogni anno, l’Italietta guidata da Salandra, già macchiata da pulsioni di nazionalismo e impegnata in una estenuante missione guerresca in Libia, festeggiava lo Statuto costituzionale concesso dal re Carlo Alberto nel 1848. Il clima era teso in tutta la nazione, con le forze delle sinistre sempre più turbolente nel reclamare pieni diritti di equità sociale, politica, occupazionale, in un periodo di grave crisi economica e di emigrazione. Il governo quindi vietò ogni manifestazione di carattere politico.
Ancona, con il suo porto, il cantiere navale, la ferrovia, le prime fabbriche, l’entroterra agrario, era già da anni in fermento. E s’era conquistata la fama di città sovversiva. Aveva infatti già conosciuto numerose esperienze di rivolte e sollevamenti popolari: dai moti del pane del 1898 agli scioperi del 1913. Ospitava importantissimi nuclei delle principali forze politiche di sinistra – anarchici, repubblicani, socialisti – e di moltissime associazioni di lavoratori che costituivano un fronte comune sempre più agguerrito. Era molto frequentata da personaggi di alto calibro: Errico Malatesta, guida e intellettuale anarchico di rilievo anche all’estero; Pietro Nenni, allora repubblicano, direttore del Lucifero; Benito Mussolini, che aveva determinato il prevalere della corrente massimalista, la più estrema, durante il congresso nazionale del Partito socialista, tenutosi nell’aprile 1914 proprio ad Ancona.
Malatesta, dopo un periodo in cui era stato costretto a rifugiarsi all’estero in quanto ricercato, il 23 ottobre 1914 si era ristabilito nella sua casa anconetana di via Astagno. Il 7 giugno, assieme ad altri leader politici considerati agitatori e sobillatori, viene
trattenuto in questura per motivi cautelari, ma solo per poche ore. Ed è tra i primi e più autorevoli ad infischiarsene del divieto imposto per i pubblici assembramenti. Raggiunge quindi Villa Rossa (o la Casetta Rossa), in via Torrioni, sede del Partito Repubblicano e del Circolo Gioventù Ribelle (dei repubblicani, ma frequentato anche da anarchici). La coalizione della turbolenta sinistra dorica aveva già programmato un comizio, e non intende affatto rinunciarvi. La manifestazione, di forte carattere antimilitarista e anti-regio, organizzata per chiedere lo scioglimento delle Compagnie di disciplina dell’Esercito e la liberazione di due soldati pacifisti, si sarebbe tenuta eccome, non all’aperto (anche a causa della pioggia), ma proprio nei locali di Villa Rossa, alle ore 18. Dove si concentrano almeno 300 persone. Parlano tra gli altri i dirigenti della Camera del Lavoro (tra cui Alfredo Pedrini), del Sindacato ferrovieri (Livio Ciardi, Sigilfredo Pelizza), del Partito Repubblicano (Pietro Nenni e Oddo Marinelli), degli anarchici (Errico Malatesta), dei socialisti (Ettore Ercoli). Il clima è tesissimo, anche e soprattutto perché le forze dell’ordine – per prevenire un eventuale corteo verso piazza Roma (dove stavano suonando la Banda Reale e quella del Buon Pastore) – hanno istituito due cordoni di gendarmi (soprattutto carabinieri, solo una decina le guardie regie) per isolare Villa Rossa, uno poco più su, all’altezza di via Ad Alto, e uno in via Torrioni. Finito il comizio, molti dei partecipanti escono in strada e si sentono in trappola. Scoppiano, i primi, inevitabili tafferugli, preceduti da scambi di insulti e lanci di pietre da parte dei manifestanti.
Ci scappa qualche pistolettata. Secondo una delle ricostruzioni più attendibili, quella dello storicoLuigi Lotti (“La Settimana rossa”, Firenze, Le Monnier, 1965 e 1972), una guardia regia spara in aria. I carabinieri pensano che si tratti di un colpo partito dalla folla, contro di loro. E, incitati dagli squilli di tromba, aprono il fuoco, premono decine di volte sui grilletti. Tre dimostranti rimangono uccisi: Attilio Giambrignoni, di 22 anni, anarchico, e Antonio Casaccia, di 24, repubblicano, muoiono subito; Nello Budini, appena 17enne, anche lui repubblicano, spira in ospedale. Si contano anche molti feriti, sia tra i dimostranti che tra i carabinieri. Casaccia, Budini e Giambrignoni sono tra coloro che si erano barricati sul tetto di Villa Rossa, da cui piovevano sassate in strada. L’eco dei sanguinosi fatti determina un’immediata ondata di indignazione e rabbia spontanea che si propaga fra la popolazione anconetana, mentre le forze di polizia si ritirano piuttosto passivamente durante gli scontri. Si verificano assalti allearmerie, i lavoratori portuali e i ferroviari bloccano porto e stazione, rallentando l’arrivo di ulteriori militari chiamati come rinforzo, i palazzi pubblici vengono presi dai manifestanti. Nella tarda serata del 7 giugno la Camera del Lavoro proclama lo sciopero, seguita dalla Confederazione Generale del Lavoro (C.G.L) che lo rilancia a livello nazionale il lunedì. E il giorno dopo dal Comitato Centrale del Sindacato dei Ferrovieri, che ha sede ad Ancona. Lo sciopero, per motivi organizzativi, diventa generallzzato in tutta Italia solo il 9 giugno (in alcune regioni solo il 10). Sempre il 9 giugno si tengono ad Ancona i funerali dei tre uccisi, i “martiri di Villa Rossa”. Vi partecipano almeno 20.000 persone (su una popolazione locale che conta all’epoca 35.000 abitanti). Si concentrano a piazza Roma, marciano lungo via XXIX Settembre e raggiungono la Camera del Lavoro agli Archi, in via Nazionale, per un comizio conclusivo. Nel frattempo anarchici, repubblicani, socialisti, ferrovieri, portuali continuano a tenere in scacco la città, decretano il coprifuoco, organizzarono posti di blocco.
Intanto i moti si sono estesi a macchia di leopardo, con violentissimi scontri a Ravenna, Bologna, Parma, Firenze, Terni, Milano, Torino, Genova, Roma, Palermo.
“Furono sette giorni di febbre durante i quali la rivoluzione sembrò prendere consistenza di realtà (….). Per la prima volta forse in Italia, con l’adesione dei ferrovieri allo sciopero, tutta la vita della nazione era paralizzata”, disse poi Pietro Nenni. Furono giorni di manifestazioni e dure repressioni, 17 cittadini persero la vita: 16 manifestanti ed un commissario di polizia. Centinaia i feriti. Il governo mobilitò 100mila soldati. Il 10 giugno la segreteria nazionale della C.G.L., che aveva inteso aderire allo sciopero per 48 ore, “ordinò” alle camere del lavoro la cessazione della mobilitazione. Malatesta però incitò ancora alla prosecuzione dell’insurrezione e ad ignorare gli ordini della C.G.L. , del resto secondo lui lo sciopero aveva assunto i connotati di una rivoluzione. Ma rivoluzione non fu. La rivolta, omogeneizzata da una sorta di iper spontaneismo, istintivo ma poco strategico, via via defluì, e si concluse definitivamente il 14 giugno.
Secondo la maggioranza degli storici fallì a causa della mancanza di unità fra i dirigenti dei partiti delle sinistre e dei sindacati. I tempi per la rivoluzione popolare e proletaria erano prematuri, dal punto di vista di una comune guida e linea organizzativa, politica e programmatica.
(tratto da Urlo – mensile di resistenza giovanile)