UN OCCASIONE PER FARE IL PUNTO SULLO STATO DELLA RICERCA
del dottor Giorgio Rossi
Il 21 settembre scorso si è celebrata la XXIV Gionata Mondiale della Malattia di Alzheimer, la più comune forma di demenza che rappresenta una delle sfide sanitarie più grandi del nostro secolo e viene definita dal G8 come una priorità, con l’ambizione di trovare una cura entro il 2025.
Secondo gli ultimi dati del “ Rapporto Mondiale Alzheimer”, ogni anno si registrano quasi 10 milioni di nuovi casi. Nel mondo si stimano circa 47 milioni di persone affette da demenze di cui il 60-70% con Alzheimer.
L’Italia risulta all’ottavo posto per il numero di persone colpite da queste malattie: si stimano più di 1,4 milioni di cui circa la metà affetti da Alzheimer.
La malattia prende il nome da Alois Alzheimer, neurologo tedesco che per la prima volta nel 1907 ne descrisse i sintomi e gli aspetti neuro-patologici.
E’ la forma più comune di demenza senile, provocata da un’ alterazione delle funzioni cerebrali che si manifesta con riduzione della memoria e delle capacità cognitive che inizialmente sono di lieve entità e inquadrabili nel fisiologico indebolimento legato all’età.
Nel corso della malattia, che può essere più o meno rapido, i deficit cognitivi si acuiscono e possono portare il paziente a gravi perdite di memoria, a porre più volte le stesse domande, a perdersi in luoghi familiari, all’incapacità di seguire delle indicazioni precise, ad avere disorientamenti sul tempo, sulle persone ( fino a non riconoscere gli stessi familiare), sui luoghi, ma anche a trascurare la propria sicurezza personale, l’igiene e la nutrizione.
A tutt’oggi, pur conoscendo il meccanismo patogenetico, non esiste cura risolutiva.
Pertanto la gestione dei bisogni dei pazienti diviene essenziale. Spesso è il coniuge o un parente stretto a prendersi in carico il malato, compito che comporta notevoli difficoltà e oneri. Chi si occupa del paziente può sperimentare pesanti carichi personali che possono coinvolgere aspetti sociali, psicologici, fisici ed economici.
In più di 20 anni si sono investite tante energie e tanti denari nella ricerca per sperimentare nuovi farmaci e fino ad ora, ci hanno dato molte conoscenze, ma nessuna cura, salvo poche che al massimo alleviano qualche sintomo.
Da diversi anni si ritiene che la principale responsabile della malattia sia la proteina beta-amiloide. Sostanza presente nel cervello di tutte le persone che in condizioni di normalità, viene frantumata, da uno specifico enzima, in piccolissime particelle che si dissolvono nel liquido cerebrospinale che bagna il cervello ed in midollo spinale.
Nella persona affetta da Alzheimer, invece, l’enzima è mal funzionante e i frammenti che si formano sono di maggiori dimensioni , tendenti ad aggregarsi fino a formare placche che non defluiscono più nel liquido cerebrospinale e si depositano tra le cellule cerebrali che vengono così distrutte.
Questo meccanismo può iniziare molti anni prima della sintomatologia clinica.
Ecco allora che attualmente i ricercatori puntano alla prevenzione.
Si stanno mettendo a punto dei nuovi set di esami : – sul sangue per cercare molecole presenti solo nel plasma di che è destinato ad ammalarsi anche 10-20 anni dopo, o della retina e altri tessuti alla ricerca di anomalie predittive;
– la ricerca dei livelli di beta-amiloide nel liquido cerebrospinale ottenuto per puntura lombare ( piuttosto invasiva).
– tecniche d’ imaging : la PET ( Positron Emission Tomografy) con la somministrazione di un particolare tracciante che si lega specificatamente alle placche di beta-amiloide nel cervello; oppure la classica Risonanza Magnetica, ma interpretata da un sofisticato software in grado di evidenziare le famigerate placche.
Ovviamente siamo a livello molto sperimentale, ricerche condotte solo in particolari persone ritenute ad altissimo rischio; per ora restiamo ben lontani da una vera prevenzione che per definizione è una procedura che deve rispondere a dei requisiti fondamentali : applicabile su vasta scala su una popolazione apparentemente sana , utilizzare metodiche non invasive, essere economicamente sostenibile per il sistema sanitario e, soprattutto, deve esistere una cura risolutiva che a fronte di una diagnosi precoce conduca alla guarigione.
Molte sono anche le sperimentazioni avanzate su nuovi farmaci in particolare anticorpi anti- beta amiloide o enzimi che bloccano la produzione di beta-amiloide.
Ma in attesa che la scienza continui il suo inarrestabile cammino per raggiungere risultati significativi che prima poi arriveranno, ci si concentra nel mettere in atto le migliori metodiche di assistenza al malato di Alzheimer.
Tra queste si sta affermando il metodo Montessori, ispirato al pensiero pedagogico della marchigiana Maria Montessori che suggerisce la realizzazione di un ambiente preparato scientificamente per permettere lo sviluppo delle abilità cognitive, sociali e morali di ogni essere umano e conosciuto in tutto il mondo come sistema di insegnamento per i bambini nelle scuole dell’infanzia.
Da qualche anno, specie nei Paesi del Nord Europa, viene utilizzato anche nei pazienti con Alzheimer.
Montessori incontra Alzheimer, M< >A, è un progetto di social innovation che fa incontrare due mondi apparentemente distanti.
L’approccio montessoriano in ambito clinico viene sperimentato per la prima volta per volontà del dottor Cameron Camp, autore del Montessori-Based Dementia Programming (MBDP) presso il Myers Research Institute Beachwood, Ohio di cui è direttore.
In questo contesto clinico riabilitativo, il dottor Camp ha sperimentato l’applicazione dei principi e dei materiali dell’educazione montessoriana. Tale applicazione si è rivelata vincente.
Obiettivo primario è quello di stimolare l’interesse del paziente attraverso la presentazione di materiali che siano per lui “attraenti” ovvero utili ad incrementare il proprio benessere e le proprie residue competenze. Il risultato atteso è il ritardo della degenerazione psico-fisica.
In questo ambito, le Marche si propongono come regione pioniera: il 21settembre scorso, presso il Teatro Valle di Chiaravalle ( città natale di Maria Montessori), nel corso del Convegno Internazionale sull’Alzheimer, è stata presentata la sperimentazione che l’INRCA ( Istituto Nazionale Ricerca e Cura Anziani ) e la Regione Marche metterà in atto per i malati di Alzheimer.
Utilizzando le iniziative del PSR ( Programma Sviluppo Rurale) della Regione Marche in cui sono stati realizzati modelli di agricoltura sociale, l’INRCA, integrandoli nella rete dei servizi territoriali e semi residenziali, estenderà ai pazienti di Alzheimer il modello di accoglienza dell’impresa rurale , attraverso l’orticoltura e laboratori vari al fine di stimolare le capacità dell’anziano.
E’ importante infatti organizzare attività che consentano di recuperare e mantenere le abilità fisiche e cognitive pregresse, anche attraverso semplici compiti quotidiani di cura dell’ambiente circostante.