Si sono aperti i Giochi Olimpici di Londra 2012, e il mio ricordo in questi giorni va a eventi e personaggi che hanno reso negli anni il momento dell’accensione del bracere olimpico un attimo di brivido e felicità.
Roma, 1960: XVII Olimpiade, Maratona. Forse la gara che più di ogni altra racchiude in sè il mito a cinque cerchi, l’uomo che si mette in competizione contro se stesso, anzitutto, i propri limiti e quelli della natura.
Per l’Etiopia, da sempre terra di campioni nel mezzofondo e nelle lunghe distanze della corsa, tanti sono gli atleti accreditati di ottimi tempi sulla distanza olimpica della Maratona, e favoriti per la vittoria finale.
E poi c’è lui, Abebe Bikila, agente di polizia e guardia del corpo personale dell’imperatore simbolo dell’Etiopia, il mitico Haile Selassié identificato come i “Messia Nero”, l’incarnazione di Jah per il Rastafarianesimo, Cristo tornato sulla Terra per liberare le nazioni dal male nazifascista e la popolazione nera di tutto il mondo dall’oppressione originaria.
Qui le versioni, come in ogni mito, divergono, quando ancora non c’era la Tv a testimoniare ogni attimo ed ogni centimetro del campo di gara. Secondo alcuni, per una precisa scelta concordata con l’allenatore svedese Onni Niskanen, Bikila partì senza scarpe ai piedi; secondo altri, partì con le scarpe che tolse via durante il tragitto per un problema delle stesse.Poco cambia, il mito resterà Abebe Bikila che corre scalzo la Maratona olimpica.
Gli avversari e i tifosi a bordo tragitto lo guardavano con sorpresa, e un po’ di simpatica. Tutti immaginavano che quell’uomo un po’ strambo avrebbe ben presto ceduto al caldo e alle pieghe ai piedi. Ma Abebe, correva, correva con un animale libero, scalzo, e con il vento di un intero popolo che soffiava alle sue spalle. Abebe Bikila, l’uomo scalzo che poteva contare solo sulla forza delle sue origini, era l’Africa. L’Africa che si liberava dal colonialismo europeo, l’Africa che correva incontro al proprio futuro, alla voglia di libertà e al desiderio di vittoria.
Abebe Bikila, l’eroe scalzo di un popolo grande come il Mondo, aveva un cuore sotto i piedi, un cuore più forte delle scarpe, che lo fece correre fino al traguardo, con gli avversari che uno dopo l’altro non poterono far altro che guardarlo attoniti mentre correva scalzo verso la vittoria.
Medaglia d’oro olimpica. L’Africa liberata almeno sul campo di gara, primo oro olimpico dell’Etiopia, il mito dell’Imperatore Haile Selassié che si incarna nell’uomo scalzo che ha portato un popolo sulla vetta più alta del mondo.
Quattro anni dopo Abebe Bikila corse, con le scarpe, la maratona olimpica di Tokyo 1964, e vinse ancora: fu il primo uomo a bissare l’oro nella maratona olimpica.
Nel 1969 mentre guidava l’auto nei pressi di Addis Abeba, il campione ebbe un incidente che lo paralizzò dal torace in giù. Le sue gambe, i suoi piedi scalzi e veloci, erano morti. Forse in quel momento tutto un popolo stava per essere sconfitto dal proprio destino. Haile Selassié imboccava la parabola discendente della sua vita mitica.
Abebe provò ancora a rialzarsi, partecipò alle Paralimpiadi di Heidelberg nel 1972, nel tiro con l’arco. Ma l’anno successivo morì, stroncato da una emorragia cerebrale.
Nel 1974 morì anche Haile Selassié. Rimase solo Bob Marley, emblema che diffondeva tra la gente il culto del rastafarianesimo, in nome dell’Africa Unita di tutto il mondo. Fino a che un melanoma maligno che gli cresceva sotto la punta dell’alluce se lo portò via nel 1981, lasciando tutto il grande popolo africano con un grande dolore e un sogno, lo stesso che correva al posto delle scarpe di Abebe Bikila, racchiuso nelle parole della splendida “Redemption Song” : “Emancipate voi stessi dalla schiavitù mentale, nessuno a parte noi stessi può liberare la nostra mente”.
TOMMASO ROSSI