Stefano Cucchi: una ferita che non smette di sanguinare

imagesRoma, 9 giugno ’13 – Quando si parla di sentenze, di condanne e di assoluzioni bisogna sempre tenere presente che, purtroppo, la verità giudiziale non corrisponde con la verità dei fatti, perché i fatti devono essere dimostrati mediante prove certe e concrete, inserite in una dialettica procedimentale che ha le sue regole rigide e a volte pare che il convincimento del giudice abbia bisogno, per determinarsi, di elementi più clamorosi di quelli che servirono per convincere San Tommaso.

Forse è questa l’amara introduzione quando si deve parlare del caso di Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni, arrestato per droga nel 2009 e morto di fame e sete 6 giorni dopo all’ospedale Pertini di Roma, un caso che ha sconvolto l’Italia e che ha gettato discredito sui metodi utilizzati dalle forze dell’ordine. Ieri, il primo grado si è chiuso così: condannati i medici, assolti gli infermieri e gli agenti della penitenziaria. Ed è sicuramente l’assoluzione degli agenti che suscita le maggiori polemiche e fa invocare all’ingiustizia : “Assassini, assassini, assassini. Questa non è giustizia!”. Piange la sorella di  Stefano, Ilaria, che fin dal primo giorno si è battuta perché venissero individuati i responsabili della tragedia del fratello. Al termine delle sette ore di camera di consiglio, i familiari e gli amici di Stefano si aspettavano un esito diverso, sicuramente più duro e che evidenziasse quelle che per loro sono le reali responsabilità.  Le stesse richieste dell’accusa erano ben più pesanti, addirittura triplicate rispetto a quelle effettivamente irrogate: due anni per il primario Aldo Fierro; un anno e quattro mesi per Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo, otto mesi per Rosita Caponetti. Quest’ultima viene condannata pr falso ideologico, i primi cinque per omicidio colposo (oltre a un risarcimento complessivo di 320 mila euro) e non per abbandono di incapace, il reato più grave prospettato dall’accusa. Tutto questo rende i genitori e la sorella sgomenti e pieni di rabbia, nei confronti di un processo che loro ritengono sia stato fatto a Stefano Cucchi e non a coloro che lo hanno ridotto nelle condizioni di essere ricoverato in ospedale e a coloro che lì lo hanno lasciato morire di fame e di sete. Infatti, alla luce della sentenza di ieri, per lo Stato italiano Cucchi è morto a causa di un errore sanitario e nessuna responsabilità hanno avuto gli agenti che lo hanno malmenato e massacrato di botte.

Ma si spera nell’appello:  “Io non mi arrendo – promette Ilaria -. Questa giustizia è ingiusta, mio fratello è stato massacrato. Non potrò mai perdonare coloro che me lo hanno portato via pensando che noi lo avessimo abbandonato. E oggi (ieri, ndr) hanno calpestato Stefano e la verità”. “Me l’hanno ucciso un’altra volta, ma noi andremo avanti”, aggiunge la madre, Rita Calore. E il padre Giovanni: “È una sentenza inaccettabile, proseguiremo”. Per il loro avvocato, Fabio Anselmo, “questo è un fallimento dello Stato”. Il legale ricorda la battaglia condotta invano fin dalle prime battute dell’inchiesta: secondo la famiglia, gli agenti della penitenziaria avrebbero dovuto essere accusati di omicidio preterintenzionale, e non di lesioni “perché senza quel pestaggio Stefano non sarebbe morto”.

Il pm Francesca Loy, che ha sostenuto l’accusa insieme al collega Vincenzo Barba, si dice «delusa». Anche se, precisa, “la corte ha accolto la nostra tesi, cioè che la responsabilità principale è stata dei medici”. Certo, prosegue il pm, “per noi è provata anche la responsabilità degli agenti penitenziari: leggeremo le motivazioni e decideremo se fare appello”. L’eventualità del processo di secondo grado non è esclusa nemmeno dagli avvocati, né da quelli della difesa, né dal legale della famiglia. Si ricorda però che, se ad impugnare è la sola difesa, gli imputati non potranno vedersi inasprita la pena, mentre il legale della famiglia, in quanto parte offesa, può impugnare solo per gli effetti della responsabilità civile.

Dall’altra parte, gli assolti festeggiano: per il poliziotto Nicola Manichini, “è la fine di un incubo. La giustizia ha trionfato”. Esulta anche l’infermiere Giuseppe Flauto: “Per fortuna è emersa la verità che ha alleviato una sofferenza di quattro anni”. Il difensore di Fierro, l’avvocato Gaetano Scalise, si dichiara “moderatamente soddisfatto: rispetto all’imputazione originaria la decisione della corte è in linea con le acquisizioni dibattimentali”.

Quando i Cucchi giovedì hanno lasciato l’aula bunker di Rebibbia sono stati accolti dagli applausi di circa 30 manifestanti che fin dal mattino hanno atteso la sentenza e affisso all’ingresso dei carcere striscioni come “Solidarietà a tutte le vittime della tortura e del carcere” e “Ilaria siamo tutti con te. Non ti lasciamo sola”. In testa al gruppo alcuni politici, Giovanni Russo Spena (Rifondazione), Gianluca Peciola (Sel), Mario Staderini (Radicali) e Sandro Medici (presidente del X Municipio di Roma ed ex candidato sindaco della Capitale). Per testimoniare la propria solidarietà alla famiglia Cucchi sono arrivati a Roma anche i protagonisti di vicende analoghe: Lucia Uva, sorella di Giuseppe, morto nel giugno 2008 all’ospedale di Varese dopo essere stato fermato dai carabinieri; Domenica Ferrulli, figlia di Michele, morto a 51 anni nel giugno 2011 a Milano per arresto cardiaco mentre alcuni agenti lo stavano arrestando; Claudia Budroni, sorella di Dino, ucciso a Roma nel luglio 2011 da un colpo di pistola durante un inseguimento con la polizia sul raccordo anulare; Grazia Serra, nipote di Francesco Mastrogiovanni, morto nell’agosto 2009 dopo essere rimasto per 82 ore legato mani e piedi a un letto di contenzione in un ospedale psichiatrico lucano.

Una lunga, triste lista di ferite sanguinanti procurate da chi dovrebbe proteggere i cittadini ed assicurare il rispetto della legge e della dignità umana.

Vi consigliamo la visione del film-documentario “148: i mostri dell’inerzia” che ricostruisce gli ultimi sei giorni di vita di Stefano Cucchi. La regia è di Maurizio Cartolano, da un un’idea di Giancarlo Castelli, prodotto da Simona Banchi e Valerio Terenzio per Ambra Group, con il patrocinio di Amnesty International e Articolo 21.


Il giorno della morte, 22 ottobre 2009, Stefano è la 148esima persona deceduta all’interno di un carcere italiano, da qui il titolo del film-documentario che si sviluppa  attraverso la voce e le immagini di Stefano, le testimonianze, i filmini della famiglia, le lettera scritte da Stefano, le parole del padre e della sorella che ricordano un figlio ed un fratello tra dolore e rabbia che più che nelle loro parole si mostrano nei loro occhi, nella loro voce  e nelle loro mani tremanti, spesso inquadrate. Ilaria, come nel suo libro, diventa quasi una co-protagonista della storia che guida per mano gli spettatori nella difficile ricostruzione della vicenda del fratello.
E’ un racconto umano in cui Stefano è il protagonista con le sue fragilità ma anche i suoi sorrisi durante una festa di compleanno in famiglia, quella stessa famiglia che pur nei momenti più oscuri, di riprese e ricadute, gli è stata sempre accanto con amore ma a volte anche con durezza per cercare di impedirgli di buttare via se stesso e con lui un pezzo delle loro vite.

Il documentario, come il libro di Ilaria Cucchi, ripercorre su due piani paralleli la vita di Stefano e della sua famiglia e gli ultimi giorni di vita del ragazzo in quel mese di ottobre 2009. I piani sono paralleli ma alla fine si incontrano, purtroppo però si incontrano dove mai dei genitori ed una sorella vorrebbero ossia in un obitorio  dove il cadavere irriconoscibile di Stefano viene mostrato alla famiglia  in tutta la sua inaccettabile durezza. La lettura del libro di Ilaria Cucchi ( si veda il focus dedicatogli al link https://www.fattodiritto.it/focus-diritto-cultura-%E2%80%9Cvorrei-dirti-che-non-eri-solo%E2%80%9D-ilaria-cucchi-racconta-suo-fratello/), è stato un pugno allo stomaco  e lo stesso la visione del film,le pagine di quel libro sono state  tradotte in immagini ed interviste che, come il libro, mi hanno lasciato tante domande, forse troppe.
Un atto di denuncia, di richiesta di verità e giustizia non solo per Stefano ma anche per le famiglie di tanti altri detenuti che sono morti quando si trovavo nelle mani dello Stato.

E’ il caso di Federico Aldrovandi che ha da poco compiuto 18 anni quando  il 25 settembre 2005 incontra una pattuglia della polizia in Ferrara e qualche ora dopo la famiglia viene a sapere della sua morte. Per il decesso di Federico il Tribunale di Ferrara ha condannato in primo grado (sentenza confermata anche in appello) i quattro poliziotti che avevano fermato il giovane, tutti accusati di eccesso colposo di uso legittimo di armi.

E’ il caso di Giuseppe Uva, morto nel giugno 2008 dopo una notte passata nella caserma dei carabinieri in provincia di Varese. Sarà soltanto grazie alla determinazione della  sorella Lucia che il caso viene riaperto; Lucia, dopo essere stata chiamata a vedere la salma, che lei stessa fotografa, di cui nota i lividi, il sangue, le tumefazioni, inizia una battaglia legale che conduce fino ad una nuova perizia sugli indumenti, nell’ottobre del 2011, e alla riesumazione della salma di Giuseppe.

Tre donne forti, Ilaria Cucchi, Patrizia Moretti  e Lucia Uva, che sono unite in uno straziante dolore ma anche in una incredibile determinazione guidata da quel coraggio che forse solo sorelle e mamme forse possono avere.
Tre donne che con caparbietà ma anche senso della giustizia e, nonostante tutto fiducia nello Stato, stanno portando avanti una battaglia che va oltre la storia tragica dei propri cari, che scuote  le coscienze di tutti e che, come ha detto Ilaria, deve farci indignare perché forse soltanto cosi qualcosa potrà veramente cambiare.
Perché se in tanti chiediamo risposte, se in tanti cominciamo a pensare che queste cose non capitano solo agli altri, allora forse si potrà ottenere quella Giustizia di cui tanto si parla ma che  Stefano, Federico e Giuseppe e le loro famiglie stanno lottando duramente per ottenere.

MOSE’ TINTI-  VALENTINA COPPARONI

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