Storia e disciplina giuridica delle malattie mentali in Italia

MANICOMI, T.S.O., LEGGE BASAGLIA E I CAMBIAMENTI CULTURALI IN ITALIA

di avv. Valeria Marini

imagesVolendo analizzare la disciplina giuridica delle malattie mentali anche in una prospettiva storico-antropologica, mi preme sin da subito precisare come la storia della normativa per i malati di mente sia in sostanza la storia della stessa evoluzione nel nostro ordinamento della categoria del trattamento sanitario obbligatorio (t.s.o.) per malattie mentali.

La legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale opera una distinzione, in ordine ai provvedimenti obbligatori per patologie psichiatriche, tra

  • T.s.o. ordinari (o extraospedalieri): non essendo prevista una regolamentazione specifica, questi si effettuano dopo l’emissione dell’ordinanza del Sindaco su proposta motivata del medico, in ossequio all’art. 33 comma 3 della legge n. 833/1978.

Si tratta nello specifico di una forma di t.s.o. (quindi senz’altro una cura imposta) attivabile nel caso in cui, pur in presenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici non accettati dall’infermo, risulti possibile adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere. La ratio sottesa al t.s.o ordinario è che non si incida in maniera eccessivamente negativa sulla vita del paziente, per cui i luoghi impiegabili per la cura sono preferibilmente la casa dello stesso (con l’attivazione di visite domiciliari), il Centro di salute mentale (obbligando il paziente a visite ambulatoriali) o il Pronto soccorso di un ospedale pubblico. Non è necessaria la convalida da parte di un medico della USL né del Giudice tutelare; tuttavia nella prassi l’ordinanza del Sindaco che dispone un t.s.o. extraospedaliero viene spesso comunicata al giudice tutelare perché, in un’ottica di garanzia del paziente, qualora ne sussista la necessità adotti i provvedimenti urgenti che possono occorrere per conservare o per amministrare il patrimonio dell’infermo.

Il trattamento si attua nei presidi e servizi sanitari pubblici territoriali, così come previsto dall’art. 33 comma 4, legge n. 833/1978, e ha una durata pari a 7 giorni, eventualmente rinnovabili e revocabili.

  • T.s.o. in condizioni di degenza ospedaliera (o in regime di ricovero): per questi invece gli artt. 34-35 della legge n. 833/1978 prevedono uno specifico procedimento articolato in tre fasi: proposta di un medico – non necessariamente psichiatra – convalidata da un ulteriore medico della USL, ordinanza del Sindaco e convalida della stessa ad opera del giudice tutelare.Ai sensi dell’art. 34 comma 4 della legge n. 833/1978 i presupposti per l’adozione del provvedimento di t.s.o. per malattia mentale in condizioni di degenza ospedaliera sono i seguenti: esistenza di alterazioni psichiche tali da richiedere interventi terapeutici urgenti; rifiuto da parte dell’infermo di ricevere il trattamento e impossibilità di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere.

La Corte costituzionale ha precisato come, in seguito alla legge n. 180/1978 (legge Basaglia) «il trattamento dei malati di mente è stato trasformato da problema di pubblica sicurezza a problema essenzialmente sanitario o di reinserimento sociale del paziente».

Per cogliere a pieno il significato di tale affermazione, ripercorro brevemente le fasi evolutive della legislazione psichiatrica italiana, a partire dalla legge n. 36/1904 (Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati) fino alla legge n. 180/1978 (comunemente definita “legge Basaglia” in onore dello psichiatra promotore della riforma) successivamente confluita negli artt. 33-35 della legge n. 833/1978 istitutiva del Servizio sanitario nazionale.

Il testo legislativo fondamentale sulle malattie mentali, fino alla riforma in materia psichiatrica proposta da Franco Basaglia, è costituito dalla legge n. 36/1904 e relativo regolamento, r.d. n. 615/1909. La presente normativa dispone all’art. 1 comma 1 che «debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi.».

Dalla lettura di questo primo comma emergono già i principi che hanno ispirato la legge del 1904, frutto da una parte dell’atmosfera autoritaria tipica della prima metà del XX secolo, dall’altra dell’influenza della dottrina psichiatrica primo-novecentesca.

La legge in questione era improntata ad un sistema custodialistico e a una visione segregante della malattia mentale, che veniva di fatto trattata ai fini di difesa e controllo sociale piuttosto che di tutela della salute. Più che di considerare il malato di mente in un’ottica terapeutico-riabilitativa, ci si preoccupava di prevenire eventuali turbative dell’ordine pubblico. In questa ottica si giustifica l’assenza di limiti temporali alla degenza. Si trattava dunque di una legge coercitiva volta alla tutela esclusiva degli interessi della collettività, come dimostra il fatto che il malato di mente, ove non risultasse pericoloso, non riceveva alcun tipo di trattamento né era titolare di alcun diritto terapeutico.

A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso iniziò a prendere vigore in Italia un movimento socio-culturale di psichiatri guidati da Franco Basaglia che, sulla scia del pensiero americano, proponevano una concezione della malattia mentale alternativa a quella incardinata nella legge del 1904, criticando della legge stessa in particolar modo l’istituzione manicomiale.

Un primo tentativo legislativo volto al superamento dei manicomi emerge con la legge n. 431/1968 (c.d. legge Mariotti, dal titolo “Provvidenze per l’assistenza psichiatrica”), che in realtà del progetto di legge sull’assistenza psichiatrica e sulla salute mentale presentato l’anno precedente al Senato dal ministro Mariotti conteneva solo uno stralcio. Per la prima volta la psichiatria faceva il suo ingresso nel territorio, mediante la creazione di una rete extra-manicomiale di servizi per terapie ambulatoriali psichiatriche e psicoterapeutiche. La presente legge è stata definita una “miniriforma” in campo psichiatrico, visto che per la prima volta la malattia mentale era ricondotta sul piano generale della tutela della salute, e in conseguenza di ciò il momento custodialistico passava in secondo piano rispetto alle esigenze terapeutico-riabilitative. Vi è d’altro canto chi ha fatto notare come, nonostante le sostanziali modifiche della previgente disciplina, si continuasse in realtà a identificare il malato mentale come pericoloso per sé e per gli altri, a dimostrazione del fatto che non era ancora emersa del tutto l’esigenza di tutela del diritti del paziente psichiatrico nell’ottica di una piena integrazione o reinserimento dello stesso nel tessuto sociale

Solo con il d.p.r. n. 128/1969 (Ordinamento interno dei servizi ospedalieri) si è dato avvio a un vero e proprio rinnovamento delle strutture ospedaliere, ristrutturandole in divisioni, sezioni e servizi speciali e riorganizzando il personale in primari, aiuti, assistenti e infermieri.

La legge n. 180/1978, fortemente voluta dallo psichiatra Basaglia, fu in realtà varata e concepita dal Parlamento come meramente transitoria, onde colmare il vuoto legislativo in materia di assistenza psichiatrica creatosi in seguito al referendum abrogativo dell’originaria legge manicomiale, indetto con d.p.r. n. 109/1978.

Vari elementi inducono a ritenere quest’ultima legge la principale rivoluzione copernicana in materia psichiatrica; i più rilevanti sono senza dubbio il tramonto delle istituzioni manicomiali, la volontarietà dei trattamenti e degli accertamenti come regola e il territorio come privilegiato luogo di assistenza per i malati mentali. La norma recante l’abolizione dei manicomi, che racchiude la più importante innovazione della riforma sanitaria, si rinviene nell’art. 7 comma 6 della legge n. 180/1978 (ora confluito nell’art. 64 comma 3 della legge n. 833/1978), che così recita: «E’ in ogni caso vietato costruire nuovi ospedali psichiatrici, utilizzare quelli attualmente esistenti come divisioni specialistiche psichiatriche di ospedali generali, istituire negli ospedali generali divisioni o sezioni psichiatriche e utilizzare come tali divisioni o sezioni neurologiche o neuropsichiatriche».

La ratio della norma è indubbiamente quella di evitare trattamenti diversificati (quale sicuramente è l’internamento in manicomio) per gli infermi di mente rispetto a qualsiasi altro malato. Lo smantellamento del sistema manicomiale (mediante l’attuazione delle fasi di prevenzione, cura e riabilitazione nei servizi psichiatrici extraospedalieri) ha determinato dunque il superamento della concezione custodialistica connessa al principio della pericolosità sociale dell’infermità psichica e alle conseguenti esigenze di sicurezza pubblica. L’approccio alla sofferenza psichica ha subito un epocale cambiamento: l’ammalato di mente, considerato alla stregua di un qualsiasi altro malato quanto a diritti e dignità, non è più discriminato in tal senso ma anzi si persegue la sua riabilitazione e reinserimento in società. Superata la concezione del paziente psichiatrico quale soggetto socialmente pericoloso e quale «persona perennemente incapace, intrappolata nella sua malattia, priva di spazi di autonomia decisionale, completamente in balia della sua infermità», è allora possibile che il medico si trovi di fronte un soggetto in grado di «operare scelte consapevoli e sintoniche con i suoi interessi e le sue motivazioni». Il paziente affetto da patologia psichiatrica non è più un soggetto passivo e privo di capacità giuridiche, ma diviene a tutti gli effetti parte attiva del percorso di cura. La volontarietà del trattamento, principio cardine del sistema ex art. 33 della legge n. 833/1978 (già art. 1 della legge n. 180/1978), si esteriorizza con il consenso manifestato dall’interessato all’intervento sanitario propostogli; nell’ottica della volontarietà dei trattamenti e accertamenti sanitari come regola, è facile dedurre come l’obbligatorietà o la necessità degli stessi costituiscano un’eccezione. Rispetto alla legge n. 36/1904, che prevedeva il ricovero «per qualunque causa di alienazione mentale», con una formula talmente ampia da potervi legittimamente ricomprendere qualsiasi manifestazione di alterazione psichica, i casi di degenza obbligatoria vengono selezionati per le sole «alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici non accettati dall’infermo», cioè gli stati di malattia idonei ad alterare anche la capacità critica e di rappresentazione della realtà, che devono comunque emergere da una precisa diagnosi patologica di natura psichiatrica, non rilevando in tal senso semplici sintomi o manifestazioni meramente occasionali.

Nel novero dei principi ispiratori emergenti da una così importante riforma in campo psichiatrico giova infine includere l’integrazione, nel Servizio sanitario nazionale, dell’assistenza psichiatrica ad orientamento prevalentemente territoriale; anche dal punto di vista organizzativo dunque il settore in questione ha subito notevoli evoluzioni.L’asse di intervento psichiatrico subisce uno spostamento sostanziale dalla struttura ospedaliera al territorio: in attuazione dell’art. 118 Cost., l’art. 7 comma 1 della legge n. 180/1978 sancisce il trasferimento delle funzioni amministrative concernenti l’assistenza psichiatrica, in precedenza esercitate dalle province, alle Regioni ordinarie e a quelle a Statuto speciale. Sempre le Regioni individuano, ex art. 6 comma 3 della legge n. 180/1978, «gli ospedali generali nei quali […] devono essere istituiti specifici servizi psichiatrici di diagnosi e cura».

La legge n. 833/1978 istitutiva del Servizio sanitario nazionale e le leggi regionali attuative hanno previsto quindi servizi dipartimentali per la tutela della salute, istituiti normalmente in ciascuna USL con funzioni di prevenzione, diagnosi e riabilitazione e dotati di équipes multidisciplinari. A norma dell’art. 1 comma 3 della legge n. 180/1978 (ora art. 33 comma 3 della legge n. 833/1978) «gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori a carico dello Stato e di enti o istituzioni pubbliche sono attuati dai presidi sanitari pubblici territoriali e, ove necessiti la degenza, nelle strutture ospedaliere pubbliche o convenzionate». Nella formula “presidi sanitari pubblici territoriali” si ricomprendono tutti gli organismi pubblici che eroghino determinati servizi volti a prevenire e/o curare le malattie che non richiedano la degenza; nel caso in cui invece sia necessario l’allettamento, i t.s.o. si attuano nelle strutture ospedaliere pubbliche (gli enti ospedalieri) ovvero convenzionate (le cliniche universitarie, gli istituti di ricovero e cura riconosciuti a carattere scientifico, gli istituti ed enti ecclesiastici civilmente riconosciuti che esercitano l’assistenza ospedaliera e le case di cura private in possesso dei requisiti prescritti).

A parte l’inversione di rotta per cui i trattamenti riservati ai soggetti affetti da malattia mentale, di regola in strutture extraospedaliere, non si limitano più solo al momento dell’esplosione della malattia ma vanno ad abbracciare le fasi preventiva, curativa e riabilitativa della stessa, giova infine puntualizzare un ultimo aspetto: la previsione dei servizi e presidi psichiatrici extra-ospedalieri rientra a pieno titolo in una logica dimensionale orizzontale dell’assistenza sanitaria; si tratta infatti di «difese sanitarie in stretto collegamento con i servizi ospedalieri, territorialmente vicine ai bisogni individuali e collettivi, soggette al controllo sociale e gestite dall’unità sanitaria locale».

Credo che l’essenza dell’eredità culturale che Franco Basaglia ha lasciato all’umanità, ed in particolar modo a quella parte dell’umanità affetta da malattie mentali, sia da rinvenire nel concetto di salute, da intendersi questa in un’accezione più ampia rispetto alla mera “assenza di malattia”, definizione puramente manualistica e di sicuro insufficiente ai fini giuridici. Coordinando infatti la disposizione relativa alla tutela della salute (art. 32 Cost.) con l’art. 2 Cost. si può osservare come la suddetta tutela sia finalizzata innanzitutto alla realizzazione dello sviluppo della personalità di ciascun soggetto, sia come singolo sia come membro delle varie comunità.

Solo attraverso la predisposizione di una serie di strumenti territoriali di prevenzione e cura si può (e si dovrebbe) intervenire sulla malattia, che costituisce senza dubbio uno dei più decisivi ostacoli che impediscono all’uomo di estrinsecare liberamente e pienamente la sua persona.

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