CILE, INDIOS CONTRO LE MULTINAZIONALI
Ancona – reportage di David Monticelli –
Dalla sua apparizione sul pianeta 521 anni fa, il colonialismo si è costantemente evoluto nelle sue forme esteriori senza mai cambiare in sostanza la propria natura intrinseca: essere cioè tendenzialmente una colossale, sanguinaria e disumana forma di oppressione perpetrata su interi popoli e addirittura su interi continenti da parte dell’Europa, prima, e del cosiddetto Nord del mondo, oggi. A farne le spese sono spesso i cosiddetti popoli indigeni o nativi, popoli che hanno cioè una cultura ecofila e un legame con la Terra molto forte, che per questo motivo difendono strenuamente. Non sfugge a questa tragica realtà la storia contemporanea dei Mapuche, popolo indigeno del Sudamerica che abita nel Wellmapu, il loro territorio ancestrale che si estende per buona parte degli attuali stati di Cile ed Argentina. I Mapuche si battono per i propri diritti civili contro la repressione dello Stato cileno (ma anche argentino): il diritto all’autodeterminazione, alla propria cultura, storia, spiritualità. E soprattutto si battono per il diritto alla propria terra, che stanno tentando di recuperare da una duplice usurpazione: quella attuata dai coloni e dai latifondisti bianchi a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo; quella più recente e vorace delle multinazionali del legname, minerarie, idroelettriche o del salmone. I Mapuche, sono uno dei popoli nativi più antichi del mondo. La presenza delle loro stesse pratiche spirituali in culture indigene della Mongolia e della Siberia fanno supporre che la cultura Mapuche si sia conservata pressoché intatta fin dai tempi dell’attraversamento dello stretto di Bering da parte di queste popolazioni, avvenuto circa 11.000 anni fa, nel tardo Pleistocene. A differenza di altre civiltà come quella Azteca e Inca che collassarono su sé stesse nel giro di pochi mesi, quando i conquistadores spagnoli decapitarono il vertice della loro struttura sociale piramidale (cattura e successivo assassinio di Montezuma e Atahualpa), i Mapuche erano caratterizzati da una struttura sociale “orizzontale” più simile a quella degli Indiani Nordamericani, con alleanze trasversali tra clan (rewe). Una struttura sociale che permise loro, popolo orgoglioso e combattivo, di resistere a tutte le invasioni, quella Incas prima e quella spagnola poi. Fu solo nella seconda parte del XIX secolo che i Mapuche, ormai in netta inferiorità numerica e tecnologica rispetto all’esercito del nuovo stato del Cile, persero definitivamente la propria autonomia in quel genocidio che la storiografia cilena chiama eufemisticamente e ipocritamente “La Pacificazione dell’Araucanía (1862 – 1884)”.
Il territorio Mapuche fu assegnato ai coloni, in maggioranza latifondisti, e le comunità (lof) furono segregate nelle “riserve” in cui vivono ancora oggi. Per tutto il XX secolo i Mapuche furono oggetto della politica repressiva e di emarginazione dello Stato cileno. Soltanto col breve governo Allende (1970-1973), intravidero per la prima volta quel riconoscimento dei diritti che, come il governo Allende stesso, furono stroncati dalla successiva dittatura militare di Pinochet, il quale operò nei territori Mapuche per favorire ancora di più gli interessi dei grandi proprietari terrieri e delle grandi multinazionali. Quando al termine della dittatura negli anni ‘90, i governi della “concertación” di centro sinistra continuarono a fare il gioco dei latifondisti e delle multinazionali, con grande delusione dei Mapuche che durante la dittatura avevano dato un forte sostegno alla dissidenza della sinistra cilena, essi decisero di attuare la cosiddetta “recuperación productiva de tierras”. come funziona la “recuperación”? Prima si ripercorre e si demarca il perimetro ancestrale del lof, cioè il territorio in cui la comunità ha sempre vissuto; poi si inizia a riprendere possesso dei terreni del lof – usurpati da coloni, latifondisti e multinazionali del legname – e ad introdurvi il pascolo e le coltivazioni con tecniche tradizionali che non sfruttano indiscriminatamente le risorse del terreno ma ne rispettano i cicli naturali di rigenerazione (permacultura). I risultati della perseveranza Mapuche cominciano a farsi vedere, nonostante gli enormi costi in termini di repressione: la Comunità Autonoma Temucuicui nel comune di Ercilla, per esempio, ha recuperato 3.000 ettari di territorio negli ultimi 10 anni, di cui circa 2.000 alla multinazionale forestale Mininco, un colosso a cui è molto pericoloso pestare i piedi. Nel frattempo i coloni bianchi, stanchi dell’ostruzionismo e dell’ostilità Mapuche, hanno cominciato ad abbandonare i terreni che fino a qualche anno fa difendevano a denti stretti con l’arroganza del proprio razzismo e con l’aiuto complice delle forze dell’ordine. In questo quadro generale, la cosa più pericolosa per il sistema è il rischio che l’ideologia Mapuche, per sua natura ecofila e “anarchica” (in senso machnovista potremmo dire), prenda il sopravvento e si diffonda: nella provincia di Malleco sono già 12 le comunità che condividono questa linea politica. La filosofia del diritto Mapuche si basa sul legame ancestrale e immemore con la terra, mentre quella dei bianchi sembra purtroppo ancora legarsi al feroce uso della violenza che esercitarono in forma genocidaria durante la “Pacificazione”. Va da sé che è a rischio l’intero impianto giuridico a presidio del colonialismo e del sistema di sfruttamento in Cile e più in generale in America Latina. Per questo nella cosiddetta Zona Roja (Zona Rossa), il cui epicentro è proprio la provincia di Malleco, lo Stato cileno non ha badato a spese. La presenza militare è massiccia e altamente tecnologica: una grande base militare con tanto di eliporto è stata costruita nei pressi di Pidima. Capillari sono le ronde delle pattuglie militari, i check point e i posti di blocco, come pressoché quotidiano è il sorvolo degli elicotteri. Infine i raid armati nelle comunità e gli omicidi politici, si ripetono in una escalation di violenza denunciata recentemente anche dal relatore speciale dell’ONU, Ben Emmerson. Il budget in milioni di dollari per tenere in piedi questo impianto repressivo è enorme. Evidentemente lo è anche la posta in gioco.
(tratto da Urlo – mensile di resistenza giovanile. David Monticelli osservatore internazionale per la tutela dei diritti umani, ha scritto questo articolo reduce da una missione presso una comunità Mapuche in Cile)