UN CRIME DAI RISVOLTI PSICOLOGICI DI OTTIMA FATTURA CHE È GIÀ LA MIGLIORE NOVITÀ DELL’ANNO
di Sabina Loizzo
A gennaio è finalmente arrivata una delle serie più attese dell’anno, la cui prima puntata, andata in onda negli USA il 12 gennaio scorso, ha totalizzato i due milioni e 300 mila spettatori. Tutti incollati allo schermo per vedere True Detective, la nuova serie della rete via cavo HBO, la stessa di Game of Thrones, Homeland, The Newsroom e tanta altra bella roba, con protagonisti Matthew McConaughey e Woody Harrelson. Al momento inedita in Italia, negli States è al terzo degli otto episodi di cui è composta la prima stagione, uno più bello dell’altro.
La serie è ambientata in Lousiana e segue un arco temporale che va a ritroso dal 2012 al 1995 attraverso continui e lunghi flashback. Rust Cohle e Martin Hart, i protagonisti nonché i detective del titolo, vengono interrogati sui fatti avvenuti nel 1995, quando i due uomini si occuparono di un efferato caso di omicidio, i cui particolari portano Cohle (interpretato da Matthew McConaughey) a intuire che ci sia sotto qualcosa di più grande: in un posto desolato in mezzo ai campi, infatti, viene ritrovato il corpo di una prostituta di nome Dora Lange, legato a un albero e con in testa delle corna di cervo. Nel 2012, un omicidio simile in tutto e per tutto a quello del 1995 fa presupporre che il caso, che all’epoca era stato chiuso con l’arresto del presunto assassino, non sia stato in realtà risolto. Si riapre così l’inchiesta e gli ex-detective vengono chiamati a ripercorrere le indagini avvenute in quei mesi, il cui ricordo fa da leva per rivelare particolari della vita personale di entrambi i poliziotti e il modo in cui le indagini su quello spinoso caso si siano inestricabilmente intrecciate con esse. Tornano in superficie incomprensioni e mezze verità, la diffidenza di Martin Hart (Woody Harrelson) verso quel partner che gli è stato assegnato dopo il suo trasferimento dal Texas in circostanze fumose, schivo e dalle idee “singolari”; le difficoltà di Cohle di adattarsi a una realtà stagnante come quella della Lousiana e più generale alla vita nella sua totalità, di fronte a cui appare sempre inadeguato e quasi svogliato ad andare avanti; le dinamiche familiari dell’uno e la totale assenza di contatti umani autentici dell’altro. Attorno a loro l’ambiente chiuso della provincia americana più ottusa, che crede nei predicatori/imbonitori e che spesso vive nelle condizione di più profondo degrado sociale, la cui atmosfera angosciante amplifica il senso di inquietudine che serpeggia lungo tutto il racconto dei due investigatori.
Il concept della serie nasce dalla mente di Nic Pizzolatto, già sceneggiatore di The Killing, e in effetti, nelle dinamiche e nelle atmosfere, True Detective la ricorda un po’, sebbene la tensione di The Killing qui sia smorzata per favorire un andamento più lento e riflessivo, che fa dell’introspezione psicologica il suo tratto distintivo, così come attinge a tutta una tradizione thriller che porta a degli inevitabili deja vù. La storia, però, è indubbiamente intrigante e, come nei migliori crime, ti cattura fin dalle prime scene. A dirla tutta, la differenza fra True Detective e gli altri crime, che ne determina anche l’elevata qualità a livello narrativo e stilistico, la fanno le interpretazioni e la sua realizzazione. In altre parola non il cosa, ma il come.
Non è più una novità che gli attori di cinema si prestino a progetti televisivi, soprattutto se questi promettono di essere lavori di grande qualità. Sicuramente questo è il caso di True Detective, dove abbiamo come protagonisti due straordinari interpreti. Che Matthew McConaughey ci stia facendo completamente dimenticare il suo triste passato di commediole con JLo e pettorali sempre in vista era ormai chiaro. Una dietro l’altra sforna interpretazioni degne di tutta la nostra attenzione, stima e ogni tipo di adorazione e onorificenze varie, da Killer Joe fino a Dallas Buyers Club, dove la prova che McConaughey da del suo talento è davvero enorme, e non a caso gli è valsa una nomination all’Oscar come miglior attore protagonista. Beh, il bravo bravissimo Matthew non si smentisce neanche in True Detective, dove il suo Rust Cohle diventa immediatamente il personaggio focale dell’intera serie, il motore trainante le vicende qui raccontate. Rust è nichilista, asociale, dotato di un’intelligenza superiore alla media e di una natura introversa, segnato profondamente dalla vita, senza più un nucleo di appartenenza né territoriale (nato in Alaska, vissuto in Texas e ora in Alabama) né familiare, ormai teso all’autodistruzione, al punto che, nelle scene ambientate nel presente, l’uomo ci appare come un alcolizzato, che ha mollato il lavoro e che si lascia scorrere addosso la vita come una punizione da espiare per colpe che conosce solo lui, la cui esperienza con il caso ora riaperto sembra averlo toccato profondamente e aver operato in lui il cambiamento definitivo. Inutile dire che l’attore è credibile tanto nella parte del giovane che in quella del vecchio Cohle. A fargli da contraltare c’è Martin Hart, il suo partner, che è tutto ciò che Rust non è mai stato: uomo ordinario, con poche ambizioni, il tradizionale padre di famiglia di una qualsiasi cittadina americana, che si fa poche domande e che dopo il lavoro vuole solo godersi la sua vita tranquilla tra le mura domestiche, concedendosi, come unico lussurioso vizio, una giovane amante. L’interpretazione di Woody Harrelson è senza dubbionotevole e l’attore si cala perfettamente nei panni di questo detective di un distretto di provincia dalle convinzioni monolitiche, il quale vive il caso di Dora Lange con coinvolgimento profondamente emotivo, la reazione di chi si ritrova a dover fare i conti con il fatto che ogni sua certezza su quale fosse l’ordine giusto delle cose del mondo sia andata completamente distrutta.
I due personaggi si muovono in un Sud alienante, lugubre e desolato, il quale trova la sua principale realizzazione a livello visivo nelle lunghe e spettrali strade di campagna, su cui la telecamera indugia svariate volte regalandoci superbe vedute esterne, lungo le quali viaggiano Cohle e Hart. Sono strade che scorrono inesorabili e apparentemente senza fine, dove chiunque può covare il proprio inferno personale e perdercisi dentro. Chiusi nell’abitacolo della macchina, Cohle e Hart danno vita a discorsi caratterizzati da lunghi silenzi, confessioni soffocate e riflessioni dai toni quasi surreali, che portano a lapidarie conclusioni da una o l’altra parte, acuendo il divario che già esiste tra loro. Tale contrasto si esprime anche attraverso l’ambiente che li circonda. Se Rust trova nel distacco emotivo e nella mancata adesione alla realtà il solo mezzo per incanalare la propria esistenza verso una qualche direzione, il seguire sentimenti e istinti da parte di Martin lo porta a generare confusione nella sua vita apparentemente ordinaria e precisa. Allo stesso modo le vedute aeree ci mostrano la morfologia di un territorio dai toni distopici, diviso tra campi coltivati e strade rettilinee con una precisione quasi ossessiva e impersonale, ma che a conti fatti, a guardare bene al suo interno, nasconde germi di una follia dilagante che giunge al suo culmine nella figura dell’omicida da scoprire e catturare. La dislocazione temporale, infine, scardina la struttura classica del crime e crea un effetto disorientante nello spettatore, il quale riceve di volta in volta informazioni ed elementi sulle indagini del passato e l’inchiesta del presente che sarà suo compito annotare mentalmente per seguire le evoluzioni della vicenda, e in questo modo se ne garantisce l’interesse sempre vivo e la curiosità costantemente all’erta.
Insomma, True Detective è una serie dall’ottima scrittura, con ottimi attori che interpretano personaggi ben caratterizzati, il cui risvolto umano e psicologico contribuisce a fissarli in maniera indelebile nella memoria del pubblico, e una regia attenta alla cura del dettaglio; tutte caratteristiche che non possono che confermare le aspettative sulla serie come una delle novità migliori dell’anno. Persino la sigla non è lasciata al caso e farne di belle così non è affatto semplice. Alla sua prima stagione, True Detective è concepito come una serie antologica, ovvero in caso di rinnovo, avrà nuovi personaggi e una nuova storia (un po’ come American Horror Story). C’è da scommetterci che l’anno prossimo vedremo una seconda stagione (pare che Pizzolatto sia già al lavoro). Ma, per adesso, senza correre troppo, godiamocela un po’.