DUE IMPORTANTI STUDI AMERICANI RISPONDONO A QUESTE DOMANDE
del dottor Giorgio Rossi (Oncologo)
Ottobre, come già riportato in precedenza in questa rubrica, è il mese della prevenzione del tumore alla mammella. Ritorniamo sull’argomento per riportare i risultati di due studi pubblicati proprio in questi ultimi giorni del mese.
Il primo studio apparso su Journal of the American Medical Association Oncology e condotto dai ricercatori dell’Università della California affronta l’annoso dilemma su chi deve fare la mammografia, a che età e ogni quanto è opportuno ripeterla.
I ricercatori hanno analizzato migliaia di dati negli archivi del Breat Cancer Surveillance Consortium (BCSC), il più grande database statunitense che raccoglie i risultati delle mammografie da tutti gli Stati. Quindi hanno confrontato il numero di diagnosi sfavorevoli ( tumori di dimensioni maggiori di 15 mm e con linfonodi positivi) nelle donne sottoposte a screening annuale con quelle ricevute dopo uno uno screening biennale. Il campione era composto da 15.400 donne tra i 40 e gli 85 anni suddivise in base all’età e alla fase di premenopausa o postmenopausa.
La conclusione a cui sono giunti i ricercatori è che se la donna è in premenopausa il maggior numero di diagnosi utili, quelle che riescono ad individuare un tumore allo stadio iniziale, si hanno con lo screening annuale. Tra queste, infatti, chi si sottopone al controllo ogni due anni ha il 28% di possibilità in più di scoprire una patologia già avanzata. Mentre per le donne in menopausa non cambia nulla se la mammografia si ripete ogni due anni, invece che ogni anno.
I risultati suggeriscono, pertanto, che l’età ha poco a che vedere con l’efficacia del test, mentre è la condizione della menopausa che diventa fondamentale per stabilire i criteri dello screening, con queste eccezioni: quando la donna è a rischio per tumore al seno (familiarità) o quando non può sapere, per vari motivi, se è entrata o no in menopausa; in queste condizioni è necessario continuare a fare riferimento all’età.
L’American Cancer Society ha già fatto suo il risultato di questo studio e nelle nuove linee guida scompare il dato anagrafico.
L’altro studio comparso in letteratura durante questi giorni, affronta un argomento che potrebbe sembrare curioso, se non fosse che da parecchi anno è causa di dibattito : l’uso del reggiseno può aumentare il rischio di ammalarsi di cancro al seno?
Il problema sorse nel lontano 1995 quando due antropologi statunitensi, Sidney Ross Singer e Soma Grismaijer, pubblicarono un libro intitolato Dressed to kill (vestiti per uccidere) ove sostenevano che indossare un reggiseno, in particolare i modelli più costruttivi o quelli rinforzati con ferretti, aumentasse il rischio di sviluppare un cancro al seno. L’ipotesi dei due antropologi era che il reggiseno interferirebbe con la circolazione linfatica provocandone il ristagno ed impedendo ai tessuti della mammella di eliminare le tossine, la cui azione locale sarebbe la causa biologica di oltre il 70% dei tumori al seno. Inoltre sostenevano che il rischio di sviluppare la malattia e il grado di aggressività della stessa, fossero direttamente proporzionali al numero di ore trascorso indossando un reggiseno.
Questa teoria, pur essendo sempre stata priva di qualsiasi dimostrazione verificabile, si è diffusa rapidamente sui media e su internet ove tuttora è circolante e molte donne continuano a chiedersi cosa ci sia di vero.
Finalmente, grazie allo studio condotto dai ricercatori del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle negli Stati Uniti, e pubblicato sulla rivista Cancer Epidemiology, Biomarkers and Prevention, quest’ipotesi senza fondamento viene definitivamente smentita.
Gli scienziati hanno esaminato 1000 donne con cancro al seno diagnosticato tra il 2000 e 2004, confrontandole con circa 500 donne sane, di età compresa tra i 55 e i 74 anni. Le donne malate erano affette dalla due forme più diffuse di cancro al seno , quello lobulare e quello duttale invasivo. I ricercatori hanno raccolto informazioni sulla misura di reggiseno, il modello, la presenza o meno dei ferretti o sostegni rigidi, il numero medio di ore e l’età di inizio d’uso di questo indumento in tutte le persone reclutate. I risultati sono stati confrontati con altri parametri importanti e ritenuti ormai “ classici”, come la storia familiare di cancro al seno, l’uso di ormoni per contraccezione o per la terapia della menopausa.
Mentre l’uso del reggiseno non è risultato in alcun modo correlato con la malattia, gli altri fattori già noti, come familiarità e l’uso di ormoni, si sono confermati di valore rilevante nel favorire lo sviluppo di questo tumore.