RIPERCORRIAMO LA STORIA DI UNO DEI PIU’ GRANDI ERRORI GIUDIZIARI ITALIANI A 30 ANNI DALL’ASSOLUZIONE
di Avv. Marusca Rossetti
Venerdì 17 giugno 1983: ero appena bambina quando, trent’anni fa, scoppiò il caso Tortora. All’epoca non fui certamente in grado di comprendere la gravità di quando stava accadendo. Ho dei ricordi sfuocati delle immagini di lui in manette che scorrevano durante i Tg…solo a distanza di anni ho veramente saputo, compreso e, in cuor mio, condannato tutti i suoi carnefici. La notizia di alcuni giorni fa delle scuse oramai fuori tempo massimo di colui che svolse un ruolo fondamentale nell’intera vicenda, mi hanno lasciata allibita.«Non ho mai pensato di raccontare il mio stato d’animo sino ad ora. Ho creduto che ogni mia parola non sarebbe servita a niente. Che tutto mi si sarebbe ritorto contro. Ho preferito mantenere il silenzio. Ero Diego Marmo, l’assassino morale di Tortora. E dovevo tacere»: così, in una intervista a “Il Garantista” nuovo quotidiano di Piero Sansonetti, il pubblico ministero che formulò pesantissime accuse contro Enzo Tortora, poi assolto con formula piena perché il presentatore di Portobello non faceva parte della Camorra. Quello che mi chiedo è come sia possibile guardarsi allo specchio ogni mattina e non avere un minimo di ribrezzo nel fissare il volto in esso riflesso…per ben trent’anni…Concordo con Aldo Grasso che sulla prima pagina del “Corriere della Sera” ha commentato lapidario: “Poteva starsene zitto. Poteva portare ancora il peso del suo silenzio. Poteva vedersela con la sua coscienza, che non fa mai dichiarazioni pubbliche”…ammesso che ne abbia una, aggiungo io. Mentre è chiaro che parlare allora avrebbe impedito a lui e ad altri di decollare con le rispettive carriere.
I magistrati che, all’epoca, senza aver effettuato alcun controllo bancario, nessun pedinamento, zero intercettazioni telefoniche, basandosi solo sulle fonti orali di criminali di mestiere, misero in galera Tortora condannandolo in primo grado a 10 anni di carcere più 50 milioni di multa, ebbero la responsabilità di questo mastodontico errore giudiziario furono innanzitutto i due sostituti procuratori che a Napoli avviarono l’inchiesta: Lucio Di Pietro, definito “il Maradona del diritto”, e Felice Di Persia. Furono loro a convincere il giudice istruttore Giorgio Fontana ad avallare l’ordine di cattura nei confronti di Tortora oltre ad altri 855, incespicando in ben 216 errori di persona, tanto che i rinviati a giudizio alla fine sono stati solo 640, di cui 120 assolti già in primo grado (mentre in appello il risultato fu di 114 assoluzioni su 191).
E di coloro che sarebbero dovuti essere garanti della giustizia, a parte il giudice Fontana, che infastidito da un’inchiesta del Csm sul suo operato diede le sue dimissioni, gli altri spiccarono il volo. Di Pietro è procuratore generale di Salerno, dopo aver sostituito Pier Luigi Vigna addirittura come procuratore nazionale antimafia. Di Persia, oggi in pensione, divenne membro del Csm, l’organo di autocontrollo dei giudici. E poi, a seguire, il presidente Luigi Sansone, che firmò una sentenza di 2 mila pagine, in sei volumi, uno interamente dedicato a Tortora e, non ultimo, il pubblico ministero Diego Marmo, che nella sua arringa finale sembra abbia dipinto l’imputato come “un uomo della notte ben diverso da come appariva a Portobello”.
Quello stesso Marmo, che pochi giorni fa ha pubblicamente chiesto scusa per la sua mala gestio dell’intera vicenda e che è tornato all’attenzione della cronaca la scorsa settimana, quando, già ex procuratore capo di Torre Annunziata, già procuratore aggiunto a Napoli, attualmente in pensione, è stato nominato “niente popodimenoché” assessore alla legalità a Pompei, suscitando lo sdegno di molti, fra i quali Francesco Emilio Borrelli dei Verdi e Gianni Simioli della Radiazza. “Noi ci vergogniamo come campani – vanno giù duro – di questa scelta che offende a nostro avviso ancora una volta la memoria e la famiglia di Tortora. Uno dei protagonisti di una pagina non edificante della storia del nostro paese diventa adesso addirittura assessore a Pompei, con una scelta che noi riteniamo inopportuna e sbagliata. Per questo chiediamo noi scusa ai familiari di Tortora a nome dei campani per l’ennesimo “schiaffo” che non meritavano e invitiamo il sindaco di Pompei a revocare subito quella delega. Altrimenti organizzeremo un flash mob di protesta sotto alla sede del Comune”. Dello stesso avviso Geppy Rippa, ex deputato dei Radicali: “Ho appreso della vicenda e sono rimasto senza parole. Credo sia giusto per tutti partecipare ad una protesta che metta in discussione una scelta davvero incomprensibile e faccia emergere di nuovo le storture di una certa giustizia”. Verso questi magistrati, poco prima di morire, Tortora aveva presentato una citazione per danni chiedendo un risarcimento di 100 miliardi di lire. Il Csm ritenne di disporre l’archiviazione e stessa sorte subì anche il referendum del 1987, nato proprio sulla spinta del caso Tortora, sulla responsabilità civile dei magistrati: votò il 65 per cento, i sì furono l’80 per cento, ma poi arrivò la legge Vassalli(L.117/88) contenente norme sul “Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati” che di fatto ne annullò gli effetti.
Il giovedì prima di quel venerdì 17 giugno 1983, l’allora direttore del “Giorno”, Guglielmo Zucconi, chiamò un giovane cronista degli spettacoli, Paolo Martini, e gli rivelò di aver ricevuto una soffiata su una maxi retata imminente, che avrebbe riguardato anche un grosso nome dello spettacolo. Chi? “So solo che sta nelle ultime lettere dell’alfabeto”. Cominciarono a spulciare l’elenco dal fondo: Vianello, Tortora, Tognazzi. Martini avvisò Tortora a Roma: “Quando lo avvertii che circolava il suo nome tra i possibili implicati in un blitz di camorra, si mise a ridere”.
Ma la soffiata era giusta. All’alba, tre carabinieri fecero irruzione in una stanza dell’Hotel Plaza di Roma e prelevarono Enzo Tortora. Senza alcun ritegno venne dato in pasto al linciaggio mediatico quando, dopo aver atteso che si ammassassero troupe televisive e fotografi, il re di Portobello venne fatto uscire dalla caserma dei carabinieri per essere trasferito a Regina Coeli, ammanettato e con la faccia sfatta. Nel maxiprocesso alla Nco di Cutolo Tortora venne accusato di essere colluso con la camorra.
Un castello inquisitorio fatto di niente, basato esclusivamente sulle dichiarazioni di delinquenti d’eccellenza. Il primo della lista, Giovanni Pandico, ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, definito “schizoide e paranoico” dai medici, divenuto lo scrivano di Cutolo è stato il più grande degli accusatori e dal 2012 è un libero cittadino. Pasquale Barra, killer dei penitenziari, 67 omicidi in carriera tra cui lo sbudellamento di Francis Turatello: è ancora dentro, ma gode di uno speciale programma di protezione. Gianni Melluso, uscito di galera e rientrato nel luglio scorso, ma per sfruttamento della prostituzione: durante gli anni della delazione contro Tortora, usufruì di trattamenti di particolare favore. Complice la legge Cossiga del 1982 che, pensata per sconfiggere il terrorismo, ha introdotto sconti di pena per chiunque avesse collaborato a qualunque titolo, i pentiti che accusarono Tortora si moltiplicarono a dismisura, passando da uno a 19. Fu detto di tutto: che avesse rubato i soldi raccolti per il terremoto dell’Irpinia, che fosse proprietario di uno yacht comprato con i guadagni dello spaccio, che lì si incontrasse con Turatello, Pazienza e Calvi scambiando valigette di droga e dollari.
Ancora più agghiacciante, se possibile, la seconda prova “schiacciante”. Trovato il nome di Tortora nell’agendina di Giuseppe Puca, uno dei killer di Tutolo, ci vollero cinque mesi perché i magistrati si arrendessero all’evidenza: l’agendina era della donna di Puca, il nome scritto a mano “Tortosa” e non “Tortora”, e corrispondeva al proprietario di un deposito di bibite di Caserta, amico della signora.
Ma perché proprio Tortora tra le tante star? Carlo Vardelli, giornalista di “Repubblica”, ricostruisce la vicenda così: da una storia di centrini di seta. Un detenuto del carcere di Porto Azzurro, Domenico Barbaro, ne aveva spediti alcuni alla redazione di Portobello nella speranza che fossero messi all’incanto. Non vedendoli comparire Barbaro cominciò a inviare a Tortora una miriade di lettere sempre più minacciose, ma essendo analfabeta, le fece scrivere al compagno di cella Pandico. Alla fine, esasperato, Tortora rispose pure, in tono secco, avvertendo che avrebbe inoltrato la pratica all’ufficio legale della Rai e nel frattempo, i centrini sono andati persi), che infatti provvedette a rimborsare il detenuto con un assegno di 800 mila lire.
Pandico, allora, decise di vendicarsi di Tortora, spiegando ai magistrati che i centrini erano un nome in codice per indicare una partita di coca da 80 milioni, che il presentatore si sarebbe intascato fregando i compari. Fu la prima prova d’accusa presentata ai legali del presentatore, che la smontano in un secondo esibendo la corrispondenza tra Barbaro e Portobello.
Risposta, aberrante degli inquirenti: “Trattasi di altro Barbaro”.
E Tortora venne condannato per camorra e spaccio.
Eletto, prima che venne emessa la sentenza, a Strasburgo con i Radicali con 451 mila preferenze, diede immediatamente le dimissioni da eurodeputato, rinunciando all’immunità, e tornò in Italia per farsi arrestare. Il 15 settembre 1986 fu assolto in appello da entrambe le accuse, così anche in Cassazione.
Venerdì 20 febbraio 1987, ricomparve in tv con la nuova edizione di Portobello e esordì con la stessa frase che disse Luigi Einaudi quando riprese a collaborare al “Corriere della sera” dopo il fascismo: “Heri dicebamus”. Dove eravamo rimasti.
Non stupisce nessuno, vorrei sperare, che i congiunti di Enzo Tortora non abbiano gradito né tantomeno accettato le scuse di Marmo…Come se chiedere scusa per aver distrutto la vita di un uomo e di un professionista serio possa essere sufficiente a riparare il torto. E quello che è più grave è che a sbagliare furono soprattutto coloro che indossavano una toga, emblema di garanzia di giustizia. Ma nessuno di questi è mai stato giudicato per aver sbagliato. Anzi.
E allora che dire? Che in quella che è stata una delle pagine più buie e vergognose della storia giudiziaria italiana bisogna metterci un bel segnalibro per farla leggere, a futura memoria, un po’ a tutti, agli addetti ai lavori e non, ma soprattutto a quest’ultimi affinché simili ignominie non abbiano a ripetersi.
Il 18 maggio 1988 Tortora morì per un tumore ai polmoni.