DUE STORIE DI SPORT E DIRITTI, DI VENDETTA E LIBERTÀ
di avv. Tommaso Rossi (Studio Legale Associato Rossi-Papa-Copparoni)
Sembra una storia di quelle venute dal sud del mondo, dall’Africa più nera dove magia e tradizione si mischiano in un connubio mistico e un po’ inquietante. Una di quelle storie che odorano di incenso e sudore, che un ritmato suono di mani e tamburi accompagna nel percorso dalla vita all’aldilà.
E’ la storia di una maledizione, “D’ora in avanti il Benfica non vincerà più una coppa internazionale, per almeno 100 anni”. Sono le parole che secondo la leggenda vennero pronunciate dal grande allenatore ungherese Béla Guttmann, il primo maggio del lontano 1962.
E’ una storia che racconta di otto finali perse dal Benfica in cinquant’anni.
E’ una storia che viene invece dall’ovest del mondo, e che sa di salsedine e Fado.
I vecchi giurano di ricordarsi le esatte parole pronunciate da Bela Guttman, i giovani si fanno raccontare tutto dai nonni con curiosità e un brivido di meraviglia.
Questione di vile denaro, un aumento di stipendio preteso e non concesso. Bela Guttmann era ungherese e ebreo, il denaro contava eccome, più della gloria per mille successi appena raggiunti dal Benfica campione di tutto degli anni ’60, con quel modulo 4-2-4 spregiudicato che poi divenne la base del calcio totale olandese.
Bela Guttmann, dopo aver vinto due finali consecutive di Coppa dei Campioni, prima contro il Barcellona di Luisito Suarez e poi contro il grande Real di Puskas e Di Stefano, forse uno stipendio più alto se lo meritava pure. Invece nulla. E Guttmann il magiaro se ne andò, sbattendo la porta e scagliando un anatema che dura ormai da più di mezzo secolo.
Da allora il Benfica, che pure si spartisce in patria i successi con il Porto, in Europa ha perso otto finali consecutive. Nel ‘62/’63 contro il Milan di Gianni Rivera, poi nel ‘64/’65 contro la grande Inter di Helenio Herrera che iniziava il suo cammino verso la storia. Ai supplementari col Manchester nel 1968. Ai rigori nel 1988 contro il Psv Eindhoven. Contro il Milan nel 1990. All’ultimo minuto, in Europa League 2012-2013, con il Chelsea. E di nuovo ai rigori nella finale 2014 contro un Siviglia non certo irresistibile. Mille occasioni per tutti i 120 minuti, ma niente, la palla non entrava, una mano fatata chiudeva la porta degli avversari spagnoli come una saracinesca.
A nulla sono valsi i pellegrinaggi dei tifosi portoghesi sulla tomba del magiaro Guttmann, a nulla le lacrime della “Pantera Nera” Eusebio per chiedere pietà e perdono al suo maestro. Nulla, la sete vendetta del vate magiaro non è ancora appagata, mancano altri 48 anni. I tifosi più giovani sperano di vedere un giorno il Benfica sollevare una Coppa, quelli più anziani piangono lacrime amare asciugate con la bandiera della loro squadra del cuore.
C’è poi un’altra storia che sembra provenire del Nord Europa, fatta di immagini simbolo forti più di mille parole, di integrazione, diritto e apertura mentale.
E’ una storia che viene invece dalla Spagna, e si intreccia nel campo dello Juventus Stadium di Torino a quella precedente.
Finale di Europa League, Benfica- Siviglia. Gli spagnoli sollevano la Coppa, dopo una rocambolesca vittoria ai calci di rigore, increduli e grati a Bela Guttmann. Gioia, lacrime, colori, urla, entusiasmo. E un bacio sulla bocca, che forse farà la storia più di quella modesta finale. Il bacio tra Ivan Rakitić, capitano della squadra spagnola, e il difensore Daniel Carriço.
Un bacio di pochi secondi, ma vero, intenso, che dopo pochi altri secondi ha fatto il giro del mondo.
Non è importante sapere se i giocatori siano o meno gay, non è importante dividersi in discorsi sull’omosessualità nello sport e nel calcio in particolare.
La cosa importante che questa storia racconta è la potenza di un gesto che sa di libertà, di non aver paura di mostrare un sentimento, o anche solo un momento, in un mondo ipocrita in cui spesso conviene nascondere.
In cui troppo spesso si è costretti a nascondersi.