LA TRANSIZIONE DEL PAESE BALCANICO VERSO UNA NUOVA INDUSTRIALIZZAZIONE
di Tommaso Cassiani
La prima volta che visitai il Paese dell’aquila bicefala non sapevo davvero cosa aspettarmi.
E’ un’esperienza comune a molti, quando si approcciano a questa zona dei Balcani. L’Albania è infatti rimasta per cosi tanti anni isolata dal resto del mondo (vittima e allo stesso tempo complice del regime tristemente surreale di zio Enver Hoxha) da essere sconosciuta ai più al pari di una versione mediterranea della claustrale Bielorussia.
Eppure – a differenza di quest’ultima – negli ultimi quindici anni l’Albania ha invece intrapreso un cammino di progressiva apertura e modernizzazione, che l’ha portata dalle scene del tragico esodo sulle coste pugliesi del 1991 ad ottenere meno di vent’anni dopo lo Status di Paese potenzialmente candidato all’Unione Europea.
Oggi il Paese è in transizione verso un’economia di mercato moderna, e la progressiva industrializzazione, il turismo crescente e la forza lavoro sempre più qualificata fanno sperare in un futuro prossimo dalle tinte accese.
Ma la terra di Giorgio Castriota, paladino nazionale meglio conosciuto come Skanderbeg, deve ancora fare i conti con un forte retaggio tradizionale che, per lo meno in alcune zone del Paese, presenta notevoli ostacoli ad un reale miglioramento delle condizioni di vita.
Per analizzare uno dei problemi più scottanti, e forse per questo più conosciuti, di questo lembo di terra del Sud Est Europa, mi son fatto aiutare da un brillante collega che l’ha esplorato attraverso i canali del lavoro sul campo che la Cooperazione Internazionale spesso mette a disposizione.
Luca Giacani ha infatti vissuto per un intenso anno a stretto contatto con le popolazioni dell’Albania del Nord, studiando le implicazioni sociali e giuridiche della pratica della Gjakmarrja , spesso banalizzata chiamandola vendetta di sangue.
“La gjakmarrja fa parte della tradizione giuridica albanese pre-statale, rappresentata dalla raccolta di diritto consuetudinario denominata Kanun, per quanto questi codici di legge tramandati oralmente fossero inizialmente più d’uno, differenziandosi di zona in zona. – mi spiega – Avevano comunque dei tratti comuni: la dimensione familiare come unità giuridica di base (non c’è individualismo e ogni persona rappresentava in qualsiasi momento la propria famiglia, in albanese fis, nel bene e nel male); l’autorità spettante agli anziani del villaggio con a capo il bajraktar, il portabandiera; la prevalenza dei valori di besa (parola data, contava più di un contratto moderno) di mikpritja (ospitalità, poiché l’ospite era inviolabile ed aveva lo status di semidio),e di burrnja (onorabilità, ovvero i comportamenti dell’uomo d’onore).
La gjakmarrja regola i conflitti tra le famiglie. Alla famiglia cui viene ucciso/violentato/insultato pubblicamente un componente va per legge riconosciuta un’offesa d’onore che può essere lavata legittimamente col sangue (pur considerando che il Kanun pone teoricamente al livello più alto il perdono). Ciò che viene pesantemente punita è l’indecisione, il tempo che la famiglia passa nel decidere tra un perdono che deve essere pubblico o l’esecuzione della vendetta, che viene eseguita dal gjakës, il killer designato tra i componenti della famiglia offesa”.
Negli ultimi anni, soprattutto su pressioni dell’Unione Europea, l’Albania sta sforzandosi di armonizzare tutto il territorio al rispetto del diritto civile, incontrando più problemi di quelli inizialmente previsti.
“Come mai persiste tuttora, in una parte della popolazione, la tendenza a regolare i propri conflitti attraverso il ricorso ad una forma privata di giustizia? – continua Luca Giacani nella sua analisi – Le risposte a questa domanda possono essere molteplici. Di certo molto dipende dal livello di corruzione delle istituzioni albanesi, che spesso portano alla conclusione che chi uccide non venga condannato secondo le previsioni del codice penale, ma ottenga invece un sostanziale sconto della pena pagando o minacciando il giudice. Questo porta a una diffusa sfiducia nei confronti della giustizia statale, in opposizione a quella tradizionale. Inoltre va sottolineato quanto la transizione storica stia portando in Albania alla scomparsa delle figure di riferimento tradizionali. Quelli che un tempo erano i capi delle comunità locali e che avevano anche funzioni di mediatori nelle faide, i bajraktar, o sono delegittimati (perché non riescono a farsi garanti degli accordi, non hanno potere coercitivo) o non vengono rimpiazzati adeguatamente da persone a cui la comunità riconosce lo stesso status.”
Il Paese delle Aquile, in bilico ancora tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere, rimane ancora difficilmente comprensibile (e in alcuni suoi aspetti, ancor più difficilmente giustificabile) per gli osservatori esterni che tentano di svelarne la complessità. Eppure, per metter definitivamente la parola fine ad un periodo troppo lungo di isolamento internazionale, dovrà sforzarsi di preservare il suo retaggio tradizionale rinunciando a quegli elementi che il resto d’Europa non vuole tollerare.
Auspicando che i vantaggi di uno Stato di diritto superino il prezzo da pagare per realizzarlo.