L’ITALIA DEL FEMMINICIDIO: UN FENOMENO SILENZIOSO MA ALLARMANTEDi Dott.ssa Alice Caporaletti
Femminicidio è un termine che tristemente e prepotentemente è entrato nella nostra quotidianità e che si usa quando in un crimine il genere femminile della vittima è una causa essenziale, un movente, del crimine stesso, nella maggior parte dei casi perpetuato all’interno di legami familiari.
Accademicamente, il concetto di femminicidio è stato elaborato per identificare le violenze fisiche e psicologiche contro le donne che avvengono in e a causa di un contesto sociale e culturale che contribuisce a una sostanziale impunità sociale di tali atti, relegando la donna, in quanto tale, a un ruolo subordinato e negandone, di fatto, il godimento dei diritti fondamentali.
La situazione in Italia è piuttosto angosciante: i dati mostrano come ogni giorno si consumino nel silenzio delle mura domestica diversi episodi di violenza contro le donne. Ogni anno quasi duecento donne vengono uccise, con una media di una ogni tre giorni. Gli uomini colpevoli di macchiarsi di queste violenze sono membri della famiglia: il padre, il fratello, il marito o l’ex compagno.
Il motivo, il più delle volte, è causato dalla ribellione della donna alle imposizioni maschili che molto spesso annientano la più elementare autodeterminazione.
L’iter è quasi sempre lo stesso: litigi continui conditi da botte, persecuzione e stalking a ogni ora del giorno e della notte che degenerano ogni volta sempre più, arrivando fino alla morte.
L’Eures e l’Ansa hanno denunciato 2.061 femminicidi tra il 2000 e il 2011 in Italia, sottolineando anche l’età delle vittime che va dai 25 ai 64 anni.
Dalle 157 uccisioni del 2012 si è poi passati alle 179 del 2013, con omicidi efferati che hanno cambiato anche il modo di fare televisione e cronaca (basti pensare ai tanti processi mediatici a cui abbiamo assistito negli ultimi anni). 152 sono le donne uccise nel 2014 ed altrettante nel 2015.
La cronaca oramai quasi quotidianamente, purtroppo, ci bombarda con notizie di questo tipo e, ascoltandole o leggendole, molti sono gli interrogativi che sorgono, anche se le risposte spesso ci lasciano attoniti: perché un uomo arriva ad ammazzare la sua compagna, la madre dei suoi figli, accecato dall’ira, dalla rabbia o dalla gelosia? Come può un uomo che ha amato spingersi così oltre?
Per quanto banale, la risposta più semplice sembrerebbe essere anche la più efficace: da un lato c’è la forte insicurezza, la paura della perdita e dell’abbandono da parte di un uomo che non si fa fatica a definire debole, dall’altro c’è l’impotenza, lo smarrimento, la sottomissione di una donna che non riesce a trovare il coraggio di ribellarsi.
In Italia, fino a non molti anni fa, precisamente fino al 1981, l’uomo che uccideva la moglie o la fidanzata “per gelosia” poteva contare su un’attenuante giuridica: il movente “d’onore”, grazie alla quale spesso e volentieri se la cavava con pochi anni di prigione. Una vergogna che affondava, ed affonda tutt’ora, le sue radici in un ideale oramai arcaico ma purtroppo ancora attivo: la femmina come proprietà del maschio.
Ancora oggi le stragi di violenza maschile sulle donne vengono ribattezzate dalla cronaca con le parole “omicidio passionale”, “d’amore”, “raptus”, “momento di gelosia”, quasi a voler per forza dare una giustificazione a qualcosa che in realtà è mostruoso e di giustificazioni non ne ha.
La dura realtà è che in questo contesto la donna che subisce violenza appare sola, spesso madre e moglie, senza indipendenza economica. Si pone poca attenzione alla realtà familiare preferendo far riferimento a raptus degli omicidi piuttosto che parlare apertamente di uomini violenti che agiscono consapevolmente.
Cosa si può quindi fare concretamente per fronteggiare questo terribile e crescente fenomeno?
Qualcosa è stato fatto, soprattutto negli ultimi anni, ma ancora tanto bisogna fare.
Oltre alla nascita dei numerosi centri anti-violenza, in tutto l’Occidente è stato finalmente introdotto il reato di “femminicidio”, con il quale si tenta di far capire che uccidere una persona perché ci si ritiene proprietari del suo corpo, della sua vita, della sua persona, è un’aggravante giuridica e non più un’attenuante, come erroneamente si riteneva.
Sulla base delle indicazioni provenienti dalla Convenzione del Consiglio d’Europa, fatta ad Istanbul l’11 maggio 2011, concernente la lotta contro la violenza contro le donne e in ambito domestico di Istanbul, è stata infatti approvata dal Parlamento nel 2013 la legge contro il femminicidio; tale legge è divisa in 12 articoli e prevede molte novità come il braccialetto elettronico e l’uso delle intercettazioni telefoniche. Il primo si applica anche allo stalker allontanato dalla casa della vittima o a chi è accusato di maltrattamenti, a patto che acconsenta, l’articolo 275 bis del codice penale: questo significa che il giudice può disporre il “controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici” come il braccialetto elettronico. Il secondo estende le intercettazioni telefoniche al reato di stalking, potenziando così gli strumenti dei magistrati per poter intervenire più velocemente in caso di minacce.
Sono poi stati introdotti altri aspetti che rendono il decreto più severo come l’irrevocabilità della querela per stalking in caso di minacce gravi e l’aggravante per i reati di violenza in presenza di minori o donne incinte.
Purtroppo però non basta una legge per salvaguardare il sesso femminile.
Basti guardare che, dall’inizio dell’anno 2016, quindi in poco più di un mese, ci sono stati numerosi casi di violenza contro le donne, sempre con la usuale cadenza di una ogni tre giorni. Donne uccise o bruciate vive all’ottavo mese di gravidanza.
L’arma più forte e duratura per la lotta contro questa strage silenziosa, da affiancare a quanto già fatto e farà concretamente il Governo, è l’educazione, in quanto è proprio dall’educazione al rispetto delle diversità tra generi che passa la lotta alla violenza e al femminicidio.
E’ quindi necessario un cambiamento culturale che parta sia da una maggiore educazione familiare e scolastica, sia dalle donne stesse che devono rivalutare il proprio ruolo e la propria immagine di genere agli occhi dei propri figli, maschi e femmine. Un’educazione che punti ad un’idea paritaria e rispettosa del prossimo e non improntata su aspettative stereotipate che vedano le bambine calme e i piccoli maschi impetuosi e violenti (nei loro giochi) potrebbe essere un punto di partenza.
La famiglia è il primo mondo che i bambini conoscono e quindi il modo in cui i genitori gestiscono la loro relazione e la famiglia stessa sono un modello che difficilmente verrà dimenticato.